sabato 22 giugno 2019

Gian Ruggero Manzoni - Nel profumo delle catacombe



Gian Ruggero Manzoni, Nel profumo delle catacombe, L’arcolaio, 2019

Quest’ultima opera poetica di Gian Ruggero Manzoni si cala nel profondo, penetra quella cavità dove inizio e fine sembrano ancora parlare, quel luogo abissale nel quale si manifesta una sospensione tra vita e morte, come una testimonianza estrema. Il legame tra il bianco e il nero, tra luce e tenebra, qui non si estingue, perché si accende di sfumature “attraverso il sentimento / e il fervore”, e ciò che resta del bianco si unisce al nero, annunciando una verità altra, aldilà di ogni scontata contrapposizione. È come se i corpi non smettessero di essere, lasciando ai propri resti una voce, un grido, un lamento o un monito, che il poeta interpreta e raccoglie, dentro e oltre il disfacimento.
Manzoni suggella nei suoi versi il legame profondo tra la vita e la morte, con la consapevolezza  che quest’ultima risulta essere necessaria alla vita, in quanto opera uno svelamento della vita stessa, divenendo una sorta di negazione che afferma. E in questo ossimoro risiede l’essenza di tutto il libro.
Che cosa ci dicono dal loro buio e dalla loro fredda luce i teschi e le reliquie che appaiono improvvisamente ai nostri occhi? Quale lingua muta si è congelata in quelle ossa? Quali passioni, quali violenze o quali preghiere dietro quei resti così inquietanti? E quali verità in quelle iscrizioni e in quelle immagini che accompagnano il nostro sguardo?
La testimonianza della morte unisce i testi in un viaggio catabasico che parla di esistenza e di destino, di ciò che è stato e di ciò che è ultimo, che rimane e si rivela negli ambulacri percorsi dal poeta.
C’è un sentimento religioso in questo itinerario, unito a un’ansia di verità che trascende ogni sorta di comoda pacificazione spirituale e che non esclude nel suo impeto l’invocazione o la sfida a Dio. Le città sotterranee, che esistono nascoste, al di sotto della superficie su cui si svolge la nostra vita consueta e distratta, con le loro gallerie, le loro ombre, i loro graffiti, insieme a ciò che resta dei corpi e agli oggetti circostanti, possono indurre alla fuga o alla riflessione. Manzoni sceglie la seconda, consapevole che esiste una lezione della morte per tentare di avvicinare con la parola poetica l’enigma e le contraddizioni dell’esistenza.
Come afferma Gian Franco Fabbri nella prefazione, qui il poeta si assume “il compito di registrare suoni e voci di una vita vissuta e parallela”, prendendo atto di “un coacervo di scambi – l’uno che prega il santo o la santa affinché intercedano presso Iddio per una contropartita di salvezza; l’altro che popola un vero e proprio mercato che accende interessi e perdoni”.
Questo a significare che il viaggio intrapreso è una meditazione sull’umano e non vuole allontanarsi dal groviglio dell’esistenza, il quale può comprendere scelte di vita estreme e moti dell’animo diversi, che ci interrogano nel loro mistero, tra verità e leggenda, come il martirio di Santa Caterina d’Alessandria “da cui sgorgarono gigli e margherite dalla vagina, / latte e miele dal collo, /quando depose la testa sul ceppo /  e la campana ne suonò la morte”, o la piccola Rosalia Lombardo, morta di polmonite a due anni, che “a volte apre e chiude gli occhi / e non manca molto che ti sorrida / o ti faccia un segno per illudersi / di non essere dalla parte / di chi più non vive”.
Nei testi di Gian Ruggero Manzoni la voce dei morti e quella della poesia s’incontrano, ma senza alcun compiacimento macabro, anzi. Ciò che emerge da questo libro anomalo e giustamente fuori dal coro, aldilà degli odierni ed insopportabili esercizi di stile, è la domanda circa l’esistenza, quell’interrogazione radicale che nasce dal profondo, ovvero dalle nostre catacombe, dove inaspettatamente è possibile coglierne il misterioso profumo.
Mauro Germani