martedì 30 aprile 2019

Sergio Leone: il sogno del cinema




Se Borges ha scritto il sogno della letteratura, Leone ha filmato il sogno del cinema, ma con una differenza: l’operazione creativa di Borges è puramente intellettuale, quella di Leone è concreta, fisica, materica. In essa il linguaggio cinematografico è il corpo stesso del suo sogno, il suo sangue, la sua violenza, la sua epica. Perché i film di Leone non sono soltanto storie sapientemente costruite, ma incarnano il cinema stesso, cioè sono il cinema del cinema, il nostro occhio interiore, lo sguardo che incontra e vede il mito. E il mito non è astrattezza perché comprende, oltre al sogno, la realtà e la morte. Il mito è appartenenza, inconscio collettivo, individualità e comunità.
Il protagonista della trilogia del dollaro, interpretato da Clint Eastwood, non ha in fondo un’identità precisa: chi è? da dove viene? dove andrà? Egli, di volta in volta, è l’avventuriero astuto, l’infallibile bounty killer, il giustiziere, il destino. Compare come un fantasma e come un fantasma se ne va, ma ovunque lascia un segno di sé – un segno enigmatico, tra la vita e la morte. Il suo poncho non nasconde soltanto la corazza come alla fine di Per un pugno di dollari (1964), ma qualcosa di più: il segreto inaccessibile di sé stesso, che poi risulta essere il segreto del cinema.
I film di Sergio Leone consentono sempre una lettura stratificata, a più livelli. Come ogni mito sono onnicomprensivi. In essi la leggenda non è disgiunta dalla dimensione storica e quest’ultima è a sua volta attraversata dal sogno, che è quello dell’uomo e del cinema. Un cerchio perfetto. Un sogno dentro un sogno. Come le arene circolari delle grandi sfide, dove le vicende dei personaggi diventano altro, assumono una dimensione ulteriore, arcana e liturgica – complice la straordinaria musica di Ennio Morricone – ed i pistoleri si rivelano figure archetipiche, senza tempo. Non si può non citare, a questo proposito, il colonnello Douglas Mortimer, in Per qualche dollaro in più (1965), interpretato magnificamente da Lee Van Cleef (attore su cui in Italia non esiste colpevolmente neanche un libro, a differenza di altri paesi), che conferisce al personaggio la freddezza del pistolero esperto, con un passato militarmente glorioso, insieme ad un dolore intimo, ad una profonda lacerazione interiore, che si rivela solo alla fine, a vendetta consumata, quando se ne va solo, verso il tramonto.
Leone ha saputo raccontare il mito senza trascurare la realtà storica in esso contenuta, con grande attenzione al minimo dettaglio: precisione, frutto di ricerca documentata, al servizio del sogno che è il cinema.
Si pensi alle sequenze riguardanti la guerra di Secessione nel film Il buono, il brutto, il cattivo (1966): esse si possono considerare tra le più significative, in ambito cinematografico, non solo di quel conflitto, ma dell’atrocità della guerra in generale: il terribile campo di concentramento nordista di Betterville, l’interno della Missione di Sant’Antonio dove i frati francescani curano i feriti, lo scontro tra i due eserciti nemici per la conquista del ponte di Langstone non si possono dimenticare. Leggenda e realtà si fondono e ci trasmettono un senso di desolazione, di orrore e di pietà che resta dentro di noi.
In C’era una volta il West (1968), poi – grande affresco epico e lirico di formidabile efficacia – questo particolare processo linguistico risulta ancora più evidente. Qui il vecchio West, quello del nostro immaginario, sta ormai per finire. Il sogno di un’epoca e di un cinema deve lasciare spazio ad una civiltà contrassegnata dal capitale e dagli affari, come simboleggia l’avanzata della ferrovia verso l’Oceano Pacifico. I vecchi eroi sono destinati a sparire. Il mito incontra la morte di sé stesso e può sopravvivere solo in un sogno nostalgico, ossia nel c’era una volta.
Armonica, il protagonista, se ne va dopo la sua vendetta, ma – come dice Cheyenne, il bandito romantico, che morirà poco dopo –  “la gente come lui ha dentro qualcosa, qualcosa che sa di morte”, mentre al centro del film c’è la figura di Jill, donna forte e dolce al tempo stesso, che fa da tramite tra passato e futuro, unico personaggio destinato ad entrare nella nuova epoca che sta avanzando: incarna la vita che non si arrende e prosegue, nonostante la delusione ed il lutto che reca in sé. Essa si colloca tra il Mito e la Storia, quella che inizia proprio quando finisce il film. Solo in Jill i segni della morte sono uniti a quella della vita futura, che certo non sarà facile, ma che lei probabilmente saprà affrontare. Giustamente è stato osservato che tutti gli altri personaggi attendono di scomparire, sono una razza che non esisterà più, ed il film dilata i tempi come in una lunga e solenne agonia: un sogno (quello di Leone e nostro) che vuole ritardare la propria fine incombente ed ineluttabile.
Per questo C’era una volta il West è l’ultimo western di Leone (il successivo film Giù la testa non si può considerare tale), con il quale il regista conclude – dopo la cosiddetta trilogia del dollaro – la sua riscrittura del genere, ossia la rivisitazione in chiave personale e mitica insieme delle figure, dei luoghi e delle situazioni-tipo del cinema western. L’eroe solitario, le armi, la legge, la banca, il cimitero e la morte, il duello assumono nel cinema di Leone caratteristiche proprie, diverse rispetto ai western classici americani, all’interno di un linguaggio cinematografico nuovo, in cui vengono privilegiati i primi e primissimi piani, i dettagli ed una particolare attenzione viene dedicata ai dialoghi, alla colonna sonora (non solo musica, ma anche rumori), ai costumi, alla scenografia, persino ai titoli di testa, con effetti sorprendenti. C’era una volta il West comprende tutto questo, ma al tempo stesso conserva la memoria del western classico: è un omaggio e un addio melanconico ad un genere, ad un mondo e ad un sogno.
Un discorso a parte meriterebbe Giù la testa (1971), film che originariamente non avrebbe dovuto essere diretto da Sergio Leone (Rod Steiger e James Coburn pretesero che fosse lui il regista). Si tratta di un’opera complessa che – pur con qualche scompenso di sceneggiatura – segna anch’essa una fine: quella delle illusioni. Celebri sono le parole del peone messicano Juan Miranda rivolte al terrorista irlandese John Mallory: “Rivoluzione? Rivoluzione? Per favore, non parlarmi tu di rivoluzione! Io so benissimo cosa sono e come cominciano: c’è qualcuno che sa leggere i libri che va da quelli che non sanno leggere i libri, che poi sono i poveracci, e gli dice: – Oh, oh, è venuto il momento di cambiare tutto – […] Io so quello che dico, ci son cresciuto in mezzo, alle rivoluzioni. Quelli che leggono i libri vanno da quelli che non leggono i libri, i poveracci, e gli dicono: – Qui ci vuole un cambiamento – e la povera gente fa il cambiamento.  E poi i più furbi di quelli che leggono i libri si siedono intorno a un tavolo, e parlano, parlano, e mangiano. Parlano e mangiano! E intanto che fine ha fatto la povera gente? Tutti morti! Ecco la tua rivoluzione! Per favore, non parlarmi più di rivoluzione… E porca troia, lo sai che succede dopo? Niente! Tutto torna come prima”.
È il film più politico di Leone, nel quale i temi dell’amicizia, del tradimento e del rapporto tra la Storia ed il destino si intrecciano con le vicende private dei due protagonisti – un film sul fallimento degli ideali (John afferma: “Quando ho cominciato a usare la dinamite, allora credevo anch’io in tante cose…in tutte, e ho finito per credere solo nella dinamite”) e sulla solitudine e l’impotenza di fronte alla realtà (“E adesso io?”, si chiede Juan dopo la morte di John). Qui il Mito si è già disgregato, ci sono solo illusioni destinate a finire, e la Storia si annuncia come un immenso campo di battaglia notturno con il quale si conclude il film.
Il percorso artistico di Leone termina con C’era una volta in America (1984), che è ritenuto il suo capolavoro. Un film sul tempo e sul cinema, un’opera circolare, anzi concentrica ed ellittica, dentro la quale non solo c’è l’America degli anni Trenta con le sue contraddizioni, ma anche la memoria drogata di quel sogno che si forma all’interno della fumeria d’oppio dove si rifugia il protagonista Noodles e dove il pubblico assiste al teatro cinese, ossia alle ombre del Bene e del Male che si combattono su uno schermo bianco. Inizio e fine del film si sovrappongono al sogno del cinema e al sogno stesso di Noodles.
Realistico, violento, e al tempo stesso onirico, sfuggente, è il film che – più ancora di altri – racchiude magicamente il sentimento leoniano del cinema come visione mitica che non supera la realtà del mondo, ma meglio la interpreta e la vive. Anche qui sono presenti i temi dell’amicizia e del tradimento, legati entrambi all’ossessione del tempo, dei ricordi e dell’amore mancato. Nessuno è vincitore in questo film, perché ciascuno perde qualcosa di sé o del proprio sogno adolescenziale. Non vince Max, non vince Deborah e non vince nemmeno Noodles. A quest’ultimo (e a noi spettatori) resta soltanto il suo enigmatico sorriso nella fumeria d’oppio. Un sorriso per dimenticare, o forse ricominciare a ricordare nelle luci e nelle ombre del cinema e del suo sogno.
Mauro Germani





martedì 16 aprile 2019

Giovanni Testori - In exitu



Giovanni Testori, In exitu, Garzanti 1988

In exitu è una delle opere più estreme di Giovanni Testori, nella quale la scrittura è continuamente spezzata, lacerata, attraversata da uno spasimo atroce. C’è un balbettio, un singhiozzo che non ha requie nella voce di Gino Riboldi, il giovane drogato che si prostituisce ed è ormai arrivato alla fine della propria travagliata esistenza. Una voce di pena e di condanna, una voce di nessuno, ai margini della grande metropoli. Una voce che esce dal buio della carne crivellata dalle siringhe, dai visceri, dai ricordi improvvisi, dalle visioni che sconvolgono la mente e il cuore.

Testori scrive in una lingua deformata, un  impasto di dialetto, di latino e di italiano – una lingua martellante, reiterata, sempre incompiuta, che vuole essere tutt’uno col dramma del protagonista. Qui il respiro s’interrompe e riprende, diventa un rantolo, perché la contesa tra vita e morte prosegue fino allo strazio ultimo, fino alla fine. Scrittore e lettore sono chiamati, perciò, a uno sforzo estremo, che potremmo definire sacrificale, in quanto avviene dentro il corpo della scrittura, passa attraverso i suoi nervi, i suoi borborigmi, le sue afasie. Per questo Testori chiama a un sacrificio, di cui egli stesso è officiante e vittima, in uno sdoppiamento drammatico: si vedano, infatti, le parti in cui il protagonista si rivolge direttamente allo scrittore.

Leggendo In exitu, non si può non riflettere sulle questioni fondamentali – e più inquietanti – concernenti il rapporto tra parola ed esistenza, che ha segnato indubbiamente  tutta l’opera di Testori, in una tensione febbrile, cioè a dire mai squisitamente letteraria, ma ustionata dall’essere-nel-mondo, dalle passioni, dalle offese  che ci assediano e ci assalgono fin dalla nascita.

Non voleva certo essere neutrale, Giovanni Testori. Sia prima che dopo lo scandalo della conversione – suggellato dal monologo Conversazione con la morte, letto da lui stesso la sera della prima al Salone Pier Lombardo di Milano il 7 novembre 1978 e successivamente portato in diverse chiese – possiamo ravvisare un’urgenza esistenziale, un bisogno d’interrogare la vita, di scavare dentro la ferocia del venire al mondo per cercare o invocarne un senso, una significanza, tra bestemmia e preghiera. Mai nessuna difesa, dunque, nessuna distanza tra la vita e l’opera.

E anche In exitu – quest’opera ultima, terribile e al tempo stesso tenera nella sua crudeltà – vide la presenza, il 13 dicembre 1988, dello stesso Testori nel ruolo del lettore, accanto a una impressionante interpretazione di Franco Branciaroli, quando andò in scena alla Stazione Centrale di Milano (con il pubblico sulla scalinata ovest), luogo dove termina la via crucis di sofferenza, di sesso e di degradazione del protagonista. Una via crucis, le cui dolorose tappe avvengono “nella notte (marcia)”, nella città “coperta di nebbia (marcia) sulla groppa della città-cavalla. Viola. Nella notte. Marcia”, nella città “contristata”, “umiliata”, “derelitta”, “assediata”, dove “Lì, è. Lui (nessuno). Lì fu (nessuno). Lì era. Lui (nessuno). Lì sarà. Lui (nessuno)”.

Nulla viene risparmiato da Testori: perversioni, oscenità, violenze fisiche e verbali si alternano a momenti d’abbandono, di slanci di un amore offeso, dilaniato, ma che pure a tratti emerge da ogni nefandezza.

Perché tutto, in fondo, è un grido – un urlo impastato di disperazione, di rabbia ma anche d’invocazione, di richiesta di soccorso. Come se davvero la scrittura non fosse più in grado di tollerare l’esistenza e il suo abisso: troppa carne ferita, troppo dolore impronunciabile, troppo inferno, troppi marciapiedi, troppi cessi di dannazione, in cui nascondersi e sprofondare. Fino all’agonia, alle ultime visioni, alla vertigine. Come in un ritorno, una nuova nascita, finalmente, tra il vomito e il sangue: “Per l’eterno. Nella Goccia. Serrato su. Imbracciato. 'Me in una cuna. Pussè ammò. 'Me in una cà. La sua. La sua de lu. La sua de lu. La sua de lu. La sua de lu, mamma. La sua de lu, papà…”.

E alla fine, dopo la morte del protagonista, la scrittura si ricompone, nell’ultima splendida sequenza del libro:

“Quanti l’indomani, s’affrettaron per primi ai treni, lo videro. Coperta d’un lenzuol bianco, la barella, su cui era stato deposto, attraversò, infatti, l’intera stazione. Alcuni chiesero e seppero. Altri andarono oltre. Tutti, però, al passaggio, scorsero una sorta di luce che, lentissimamente, andava formandosi sopra il cadavere e pareva vincere il grigior delle volte e il buio di ciò che, di là da esse, risultava improprio definir alba, benché neppur possibile fosse ritener notte”.

Mauro Germani