sabato 23 febbraio 2019

Ricordo di Angelo Conforti



Angelo Conforti (1949-2018)

Il film narra la storia di un uomo ossessionato dallo sporco. Era il 1977 e lo girammo principalmente a Milano e dintorni. Angelo aveva qualche anno più di me e lo avevo conosciuto poco tempo prima alla Scuola del Cinema del Comune di Milano. Tra noi ci fu subito intesa e in breve amicizia. Condividevamo non solo la passione per il cinema (volevamo fare i registi), ma anche per la letteratura e la filosofia. Ci piacevano gli stessi autori, avevamo gli stessi gusti. Forse perché eravamo giovani, mi sembra ci fosse in Italia, negli anni Settanta – pur tra mille contraddizioni e ingenuità -  un grande fermento culturale, una voglia di discutere, di partecipare, di creare, che poi non ho più ritrovato.
Fu naturale che Angelo e io, a un certo punto, decidessimo di collaborare.
Lui scriveva già come critico sulla rivista “Cineforum” e  insieme elaborammo il soggetto e la sceneggiatura di Non più oltre, il film sopracitato (della durata di più di un’ora), che poi realizzammo con impegno e passione, divertendoci molto.
Quella di Non più oltre è stata per me un’esperienza unica, che ricordo -  oggi più che mai - con profonda nostalgia, anche perché ha segnato l’inizio della collaborazione fra  me e Angelo. Per vari motivi il film è rimasto poi incompiuto: integralmente girato, ma privo del sonoro.
La passione per il cinema ci spinse poi a scrivere insieme altri quattro soggetti, mai realizzati in pellicola, che conservo ancora, fortunatamente,  in un cassetto, i cui  titoli provvisori (e rimasti tali) sono: Il bibliotecario, Morte di un musicista, Il seguace, Durango (quest’ultimo un western).
Devo dire che la nostra amicizia e la nostra stima reciproca non sono mai venute meno, nonostante ci siano stati alcuni momenti di lontananza.
Mi piace ricordare che Angelo è stato collaboratore di questo blog, recensendo in modo acuto e intelligente diversi film nella rubrica “Cinema e pensiero” e che ha collaborato al volume da me curato, L’attesa e l’ignoto. L’opera multiforme di Dino Buzzati (L’arcolaio, 2001), con un ampio intervento dal titolo Romanzi e racconti di Buzzati al cinema. 
Gli sono inoltre riconoscente per le sue note critiche ai miei libri Margini della parola Giorgio Gaber. Il teatro del pensiero: letture puntuali, chiare, attente, non superficiali.
Angelo è stato un uomo di profonda cultura e di grande sensibilità artistica, membro dell’Associazione Europea di Psicoanalisi, docente della Lunipsi, Libera Univesistas Psicoanalitica, e promotore di molte iniziative culturali, tra cui lo Psicofestival di Fidenza, giunto alla XIV edizione, al quale su suo invito ho partecipato più volte. Inoltre è stato fondatore e presidente del circolo cinematografico di Fidenza “La notte americana”. Come insegnante e studioso di filosofia, ha scritto – sulla base della sua esperienza didattica -  un manuale e-book per gli studenti liceali: Percorsi di filosofia.
Da non dimenticare, poi, due sue pubblicazioni: Scuola e televisione: il declino dell’Italia (CSA, 2010) e Facebook è inutile? (CSA, 2015), libri di notevole interesse, scritti con grande lucidità e con l’urgenza intellettuale di chi non è indifferente al proprio tempo e alle sorti del proprio Paese.
Quando un amico scompare, ci si sente più soli.  Così infatti è per me oggi.
Mi restano i ricordi dei bei momenti trascorsi insieme, i nostri progetti condivisi, i sogni della giovinezza negli anni Settanta, i suoi scritti, i suoi libri.
Ma lui, con la sua straordinaria intelligenza, col suo eccezionale intuito, con la sua capacità di leggere ed interpretare la realtà, mi mancherà.
Mauro Germani




venerdì 8 febbraio 2019

André Pieyre de Mandiargues - Il margine


André Pieyre de Mandiargues, Il margine, Feltrinelli 1968

Con Il margine André Pieyre de Mandiargues vinse il premio Goncourt nel 1967.
Si tratta di un romanzo (tradotto da Antonio Porta e portato sugli schermi dal regista Walerian Borowczyk nel 1976) di dettagli, di astrazioni e di morte, caratterizzato da una particolare scrittura fenomenologica, che si apre a squarci onirici, ad abissi improvvisi. Le descrizioni minute della realtà, infatti, sottendono sempre un vuoto pronto a spalancarsi da un momento all’altro, come se il mondo intero fosse in procinto di sprofondare.
Questo perché Sigismond, il protagonista, un francese di mezza età, che per alcuni affari trascorre tre giorni a Barcellona, più precisamente nel Barrio Chino, il quartiere della prostituzione, decide  in modo sorprendente di vivere ai margini della realtà, dopo aver ricevuto una lettera – di cui si limita a leggere solo un paio di righe – che gli annuncia  la morte della moglie. La sua è una fuga dal mondo attraverso il mondo, un andare incontro ai fatti casualmente, senza alcuna meta, come una specie di clochard dello spirito, senza nulla da perdere o da conquistare.
Sigismond vive così in questa bolla, nel vuoto delle sue giornate, in un estraniamento prolungato, che Mandiargues descrive minuziosamente, con l’intento (riuscito) di trasmettere al lettore un’inquietudine crescente, un senso di angosciante precarietà. Lo sguardo del protagonista risulta pertanto obliquo, fuori asse, fuori norma. Egli si lascia andare per le strade di Barcellona, sovrapponendo alla realtà immagini del proprio passato, ossessioni, ricordi, pensieri in cui compare improvvisamente la moglie, come se fosse lì e gli suggerisse i propri stati d’animo. Il tutto senza alcun dolore apparente e senza alcun riferimento all’evento tragico comunicato dalla lettera. E in questa sorta di sospensione dell’esistenza, di messa tra parentesi della coscienza, ciò che accade a Sigismond è simile ad un sogno, in cui tutto sfuma ma al tempo stesso misteriosamente rivela.
Ecco dunque l’aspetto onirico, sotterraneo ai gesti e alle azioni del protagonista, che la scrittura di Mandiargues abilmente nasconde e lascia affiorare di tanto in tanto. Descrivere nei particolari le giornate di Sigismond equivale non solo a descrivere il loro vuoto, ma anche a destabilizzare il lettore, a renderlo insicuro di ciò che sta leggendo. La domanda che ci si pone di pagina in pagine è: che cosa sta accadendo veramente? La sensazione che si prova è quella di leggere altro rispetto a ciò che veramente conta e che potrebbe rivelarsi all’improvviso. Si legge, dunque, già dopo le prime pagine e cioè dopo la lettera, col fiato sospeso, e si attende.
Qui lo stile di Mandiargues non è sontuoso e barocco come nei racconti del Museo nero, ma apparentemente più neutro e moderno, quasi protocollare. E l’insidia sta proprio in questa semplicità di superficie, che cattura il lettore, rendendolo sempre più inquieto e sospettoso.
Le passeggiate a vuoto di Sigismond, i suoi incontri fortuiti, gli avvenimenti minimi e intimi, a poco a poco diventano il piccolo universo nel quale vorrebbe imprigionarsi, ma ciò non sarà possibile. L’ossessione erotica che domina le pagine del libro - motivo ricorrente nelle opere di Mandiargues, come preludio di conoscenza misteriosa e di morte -  è qui incarnata dalla figura di Juanita, giovane prostituta silenziosa, di cui il protagonista subisce il fascino tenero e oscuro e a cui si accompagna più volte, cercando di trattenere un po’ di vita in quel suo vagabondare tra disperazione e indifferenza. Ma la ragazza è sfuggente come i sogni e in realtà annuncia la morte. Il margine vacilla, quel margine in cui Sigismond ha deciso di vivere tra camere d’albergo, locali notturni, vie e piazze popolate da corpi in cammino come fantasmi senza nome, si sta assottigliando.  E ciò che è penetrato inaspettatamente e violentemente nella sua coscienza è destinato a prorompere, fino al compimento del gesto ultimo, estremo.
Come la scrittura, anche la carne è sempre altro per Mandiargues, e inevitabilmente incontra la morte.
Mauro Germani