venerdì 20 dicembre 2019

Rinaldo Caddeo: recensione a "La parola e l'abbandono"



Mauro Germani, La parola e l’abbandono, L’arcolaio ed., Forlimpopoli (FC), 2019

Che tipo di libro è questo?
Non è un libro di poesie, anche se le prose laconiche che lo costituiscono, contengono metafore, similitudini, squarci lirici, immagini poetiche, come a pag.14: “Che davvero non esista che un ospedale di confine, bianco e sospeso nella notte, come parole dette in segreto?” o a pag.16: “C’è chi è senza soccorso, chi precipita nella notte del mondo… Chi cerca e poi trova la propria agonia fra il cielo e la polvere”.
Non è un libro di racconti, tanto meno un romanzo, anche se, a suo modo, contiene, nella prosa breve, a volte sospesa, una miriade di spunti narrativi, come a pag.31: “Conosco bene la solitudine e la tristezza di chi scrive, a capo chino, sotto il lume tenue di una lampada… È come il custode di un segreto dimenticato, un usciere senza divisa, un funambolo innamorato dell’impossibile…”.
Non è un libro di aforismi, anche se aforismi sono disseminati in tutte le pagine: “La poesia deriva non da ciò che si ha, ma da ciò che ci manca.” (pag.19), “Cerchiamo di ritornare, ma non sappiamo dove.” (pag.20), “Per quanto un ospedale possa essere pulito, avrà sempre una macchiolina nascosta da qualche parte. È quanto basta per farci rabbrividire.” (pag.21), “Solo ciò che è impossibile è degno di fede.” (pag.22), “Ognuno scrive il proprio silenzio” (pag.23), “Il bene esiste, ma è sempre in ostaggio del male.” (pag.24).
Non è un libro di poetica e di estetica, anche se di entrambe si argomenta spesso e volentieri: “La scrittura poetica è zona di pericolo, situata tra una sfuggente verità originaria e l’afasia, il silenzio, l’impossibilità.” (pag.23) o pag.69: “Un’opera d’arte non dovrebbe essere mai innocua.”
Non è un libro di critica letteraria, anche se le note letterarie sono frequenti, recise. Ci offrono da un’angolazione testuale gli auctores prediletti da Mauro Germani: Kafka, Buzzati, Leopardi, Sbarbaro, Pasolini, Rilke, Borges, Pessoa, Jabès, Blanchot, Kierkegaard, Trakl, Bernhard, Bataille, Sartre, Céline, Gaber, Giacometti, ecc., non senza incursioni nel mondo antico, intorno alla figura di Cristo e al senso originario dei Vangeli. Ma trascelgo questa osservazione che persegue radici profonde di una tematica cara all’autore: “Che cosa rende inquietante un’opera come le Baccanti di Euripide? Indubbiamente il carattere di Dioniso, il dio lacerato e lacerante, il dio folle e violento, che è mistero impenetrabile ed ultimo, come attestato dalle enigmatiche parole del coro finale: «Nulla si compie di ciò che è atteso, ma un dio trova le vie dell’inatteso». Che significa? Forse che non c’è risposta alle domande degli uomini circa il destino.” (pag.67).
E non mancano folgoranti constatazioni, note di costume, taglienti moralità: “Bisognerebbe abolire i premi letterari. I più affermati sono monopolizzati dai soliti nomi, i quali se li spartiscono tra loro, sempre ben remunerati. Gli altri sono ridicoli teatrini a pagamento per coloro che vi partecipano…” (pag.60).
Ci sono anche resoconti pacati, stupiti e rassegnati, eppure vividi e palpitanti, dell’esperienza interiore, in cui la schiettezza della testimonianza innesca un ragionamento e l’indagine sugli scenari onirici: “Ci sono e non ci sono, i morti nei miei sogni. Essi appaiono sfuggenti, fluttuanti, ambigui, si esprimono in modo poco comprensibile, ma soprattutto sembrano volersene andare al più presto, avere altro da fare, desiderare di ritornare da dove sono venuti…” (pag.62).
Senza una forma unica, ovvero nella molteplicità delle forme brevi tipiche delle sua scrittura, in questo nuovo libro di Germani, ritroviamo i temi cari alla sua produzione: l’esilio, il deserto, l’abbandono, l’incompiutezza, lo smarrimento, l’angoscia, il fallimento, la solitudine, l’estraneazione, il silenzio, il nulla, il sogno, la morte.
È un libro misto, al crocevia di tutti i generi e che proprio per questo carattere può lasciare sconcertati ma che proprio da questo statuto riceve il suo alimento e la sua cifra.
Insomma, una formula complessa che reperisce, in una molteplicità di pieghe e di fonti, le tracce per sviluppare una riflessione vasta e articolata, sulla drammaticità dell’esistenza.
Rinaldo Caddeo



domenica 8 dicembre 2019

lunedì 2 dicembre 2019

Intervista su "Limina mundi"


Sul blog letterario "Limina mundi" è uscita una mia intervista relativa a La parola e l'abbandono. Ringrazio Deborah Mega, Maria Rita Orlando e Loredana Semantica per l'attenzione. QUI

sabato 9 novembre 2019

La parola e l'abbandono - Aforismi su "La poesia e lo spirito"



Segnalo la pubblicazione su La poesia e lo spirito di alcuni miei aforismi tratti da La parola e l'abbandono (L'arcolaio, 2019). Ringrazio di cuore Giovanni Nuscis per l'iniziativa e Fabrizio Centofanti per l'ospitalità.  QUI

martedì 5 novembre 2019

Thomas Bernhard - Antichi Maestri



Il rapporto tra arte e vita è al centro di questo romanzo di Thomas Bernhard, che è una sorta di doppio monologo, ovvero la testimonianza di due voci che si intrecciano tra loro: quella dominante di Reger, vecchio critico musicale, e di Atzbacher, scrittore e filosofo, il quale riporta i pensieri del primo, trascrivendo un verbale non solo senza destinatario, ma anche così fluido che la sua voce sembra divenire l’eco della prima.

lunedì 7 ottobre 2019

Perché questo libro è stato scritto?




Perché questo libro è stato scritto?
La domanda può sembrare banale, ma in realtà è importante, ed è giusto che il lettore se la ponga al termine della sua impresa. Un’opera, infatti, per essere davvero tale ed autentica, deve avere una sua intima necessità, una sua ragion d’essere, se non addirittura un’urgenza impellente.
Purtroppo oggi capita sovente che, dopo aver letto una silloge poetica o un testo di narrativa di un autore contemporaneo, non vi sia alcuna risposta autentica e convincente al suddetto interrogativo. La domanda perché questo libro è stato scritto? resta dentro di noi senza esito ed il libro rimane tra le nostre mani come qualcosa di inerme, vuoto, e soprattutto innocuo. Non si riesce a capire che cosa abbia mosso l’autore, quale sia stata la ragione profonda del suo scrivere, aldilà naturalmente della propria ambizione personale, del suo voler essere scrittore o poeta
Spesso – soprattutto in ambito poetico – ci troviamo davanti a semplici esercizi di stile, oppure a fastidiose imitazioni, di cui non si riesce a comprendere la motivazione, se non quella di emulare presunti ed affermati "maestri" per trarne vantaggi personali. Nel migliore dei casi assistiamo ad elaborazioni costruite anche con una certa abilità, ma che non scalfiscono minimamente il nostro animo ed il nostro pensiero, perché in tali esercizi, in tali compitini, in realtà non c’è niente
In essi manca ciò che non può mancare in un’opera letteraria: l’esistenza. Se quest’ultima è assente, che cosa resta? Un vacuo, noioso e spesso insopportabile gioco di parole, che rivela solo la propria insensatezza. Se in un libro non c’è l’esistenza, non c’è nemmeno la sua ragione d’essere. Perché scrivere se non siamo capaci o abbiamo paura di affrontare il pericolo stesso della scrittura, la quale non può essere svincolata dall’esistenza? Perché continuare a produrre opere inconsistenti, senza il mistero e/o il dramma di tutti noi, dell’esistere, del nostro essere qui, con tutte le contraddizioni, i dubbi, gli smarrimenti, gli errori, i tormenti, che fanno parte della nostra condizione di esseri umani? Perché comporre in poesia esercizi ordinati ed inoffensivi, oppure scrivere romanzi o racconti scaltri, ma privi di una scrittura autentica, originale, sofferta? Perché non assumere il rischio che la parola richiede, quel rischio che pure hanno conosciuto schiere di poeti e di scrittori, che hanno pagato fino alle conseguenze più estreme la malattia, anzi la maledizione, della scrittura? Non c’è alcuna missione salvifica nello scrivere, perché questo nasce dall’esistenza e l’esistenza è di per sé maledetta, è contagiata dal male. Ogni scrittore o poeta vero è in fondo un maledetto, un segnato dal male, anche se la sua opera magari apre alla speranza o contiene una concezione religiosa dell’esistenza. Non si può sfuggire a questo. L’autenticità non si compra, né si baratta, e proprio per questa ragione occorre prendere le distanze anche da un certo ambiguo maledettismo d’accatto o ragionato, dunque di maniera, qua e là presente in alcuni giovani poeti contemporanei, epigoni illusi o maldestri dei loro compiacenti maestri.
Ritornando alla domanda iniziale perché questo libro è stato scritto? la risposta dovrebbe allora essere sempre unica: perché l’ha dettato l’esistenza, in quanto è proprio dalla tensione continua e mai definitivamente compiuta, ed anzi drammatica, tra parola ed esistenza, che può nascere un’opera autentica, capace cioè di incarnare la suddetta tensione nella pagina e trasmetterla al lettore, coraggiosamente, con tutti i rischi ed i pericoli (ancora una volta dell’esistenza stessa) che questo comporta per entrambi i soggetti coinvolti, vale a dire chi ha scritto e chi ha avuto la ventura di leggere.
Mauro Germani

giovedì 26 settembre 2019

Ennio Flaiano - Tempo di uccidere

Un’Africa quasi astratta, ma che il lettore si sente addosso con il suo caldo opprimente, il cielo incolore, il suo lento respiro. Un’Africa che è quella della guerra d’Etiopia, sospesa per il protagonista – un ufficiale italiano – tra allucinazione, vergogna e istinto di sopravvivenza. Un luogo che ben presto diviene quasi metafisico, emblema di smarrimento esistenziale e di improvvisa violenza, come una condanna da scontare. Un luogo – ancora – che mette a nudo la meschinità dell’essere umano, le sue profonde contraddizioni. E soprattutto l’assoluta mancanza di certezze. Perché il sospetto e la colpa tormentano fino alla fine l’animo del protagonista, in uno sdoppiamento continuo della propria personalità, incredulo egli stesso delle proprie azioni e della propria natura nascosta.
La vicenda narrata prende l’avvio dall’omicidio commesso dal protagonista nei confronti di Mariam, una ragazza etiope con cui ha trascorso una notte d’amore. La giovane, prima ferita involontariamente da un colpo di pistola esploso contro un animale dal tenente, viene poi uccisa di proposito da quest’ultimo. Dopo questo evento drammatico, per metà casuale e per metà voluto, il protagonista si trova in una condizione di confusione, di incertezza e di paura, alimentata poi anche dal sospetto di avere contratto la lebbra dalla ragazza, a causa di una pustola che compare poi sulla sua mano. Un malessere mentale e fisico s’impadronisce a poco a poco di lui, fino a condurlo quasi alla diserzione e a imprigionarlo in una sorta di delirio, tra ipotesi di fuga, esplosioni di violenza incontrollata, dubbi continui, viltà e pentimenti.
Niente è sicuro in questo romanzo, se non la tragedia di quest’uomo comune, in balia di se stesso e di una verità sfuggente. Egli non è un eroe, né un antieroe, piuttosto è chi non pensava di essere, un individuo che scivola tra indifferenza e orrore per ciò che sta vivendo, ma che prova anche profonda nostalgia per la moglie lontana, di cui gli restano ricordi struggenti e le lettere nello zaino. Un uomo solo, che non sa che fare, in preda a pensieri di morte che lo assalgono senza dargli tregua. Ipotesi, sospetti, indizi si succedono a improbabili progetti di salvezza, tra illusioni, disperazioni, vani tentavi di fuga. Il delitto commesso e la paura del contagio divengono il centro di un’ossessione, che dilaga all’ambiente, agli altri personaggi, alle cose. Che cosa è successo e sta succedendo veramente?
C’è indubbiamente, in questo straordinario romanzo di Ennio Flaiano (Premio Strega 1947), un’inquietudine che rimanda, per certe atmosfere e tematiche, a Dostoevskij (l'uomo del sottosuolo, intimamente contraddittorio e malato, dall'io diviso, posseduto da forze e ossessioni che sfuggono al proprio dominio), e a Kafka (il senso di colpa e di possibile condanna all'interno di un contesto che  pare spesso  incomprensibile), tuttavia con un’impronta personale di abbandono, di trasporto lirico, con uno sguardo che in certi momenti rivela una pietas non di maniera, uno scatto dell’anima, sia pur fragilissimo, esposto ai rischi costanti dell’annientamento.
Flaiano è abilissimo nel narrare, in prima persona, una storia che mette in gioco non solo la natura del protagonista, compromettendone la sua moralità e la sua lucidità, ma anche l’identità degli altri personaggi, tra tutti il vecchio Johannes e il bambino Elias, parenti della vittima, con i quali l’ufficiale, sempre più smarrito, instaurerà un rapporto contraddittorio, di dipendenza e di rifiuto insieme. Anch’essi, chi sono in realtà? Quali motivazioni nascondono i loro comportamenti?
Poi c’è la guerra di conquista, ormai giunta quasi al termine, e presente nelle pagine come una specie di sogno malato, un morbo dell’anima, che ha generato e continua a generare violenza e assurdità, stordimento della coscienza, sopraffazione e miseria. Il tutto senza discorsi ideologici, ma mettendo in evidenza quella tragica normalità, quel male dolciastro, che tutti accomuna, vincitori e vinti.
La conclusione del romanzo è spiazzante e insieme coerente, perché apparentemente tutto sembra risolversi e l’incubo del protagonista finire, in quanto “il prossimo è troppo occupato coi propri delitti per accorgersi dei nostri”, come afferma un personaggio nelle ultime pagine. E occorre ricordare quanto dichiarò lo stesso Flaiano circa l’epilogo non certo rassicurante della storia: “Il protagonista, alla fine, ha di nuovo il sospetto di non essere guarito. Forse non si tratta più della lebbra, si tratta di un male più sottile e invincibile ancora, quello che ci procuriamo quando l’esperienza ci porta a scoprire quello che noi siamo veramente. Io credo che questo non sia soltanto drammatico, ma addirittura tragico”.
Tempo di uccidere è sicuramente uno dei più importanti romanzi del Novecento italiano.
Mauro Germani



sabato 7 settembre 2019

Giovanni Testori - Trilogia degli Scarozzanti





Giovanni Testori, Trilogia degli Scarozzanti, in Giovanni Testori, Opere (1965-1977), Classici Bompiani, 1997

Con la Trilogia degli Scarozzanti, comprendente L'Ambleto (1972), Macbetto (1974), Edipus (1977), Giovanni Testori crea un percorso drammaturgico di estrema originalità, contraddistinto da una scrittura che nasce dentro la carne, perché il linguaggio – secondo le parole dello stesso Testori – “deve essere fisiologico, creare tensione tra chi parla e chi legge o ascolta”. Da questo motivo scaturisce la necessità di una scrittura non solo materica, ma anche libera da un sistema espressivo codificato ed istituzionalizzato, una scrittura ancestrale, quindi, la quale – per citare quanto Testori dichiarò a proposito del Macbetto – vuole “mettere l’apocalisse nelle parole: distorcerle, squartarle, scuoterle”, fino al risucchio, dentro “la grande fenditura di cui la donna è l’emblema, da cui tutto è uscito e in cui tutto rientra”. E questa affermazione è da collegare anche all’ossessione – presente sempre in Testori – della nascita, del venire al mondo contro la propria volontà, dell’espulsione dal ventre materno nel sangue, in una condanna terrena tutta da scontare, nella battaglia continua tra senso e non senso. Non a caso nell’Ambleto il fantasma del re emerge dal suo stesso sperma, perché è proprio da lì che per il protagonista inizia la tragedia.

sabato 6 luglio 2019

Marco Molinari: recensione a "La parola e l'abbandono"


Sono molto grato a Marco Molinari per questo suo articolo apparso sul quotidiano "La Voce di Mantova". (cliccare sull'articolo per ingrandire)

venerdì 5 luglio 2019

sabato 22 giugno 2019

Gian Ruggero Manzoni - Nel profumo delle catacombe



Gian Ruggero Manzoni, Nel profumo delle catacombe, L’arcolaio, 2019

Quest’ultima opera poetica di Gian Ruggero Manzoni si cala nel profondo, penetra quella cavità dove inizio e fine sembrano ancora parlare, quel luogo abissale nel quale si manifesta una sospensione tra vita e morte, come una testimonianza estrema. Il legame tra il bianco e il nero, tra luce e tenebra, qui non si estingue, perché si accende di sfumature “attraverso il sentimento / e il fervore”, e ciò che resta del bianco si unisce al nero, annunciando una verità altra, aldilà di ogni scontata contrapposizione. È come se i corpi non smettessero di essere, lasciando ai propri resti una voce, un grido, un lamento o un monito, che il poeta interpreta e raccoglie, dentro e oltre il disfacimento.
Manzoni suggella nei suoi versi il legame profondo tra la vita e la morte, con la consapevolezza  che quest’ultima risulta essere necessaria alla vita, in quanto opera uno svelamento della vita stessa, divenendo una sorta di negazione che afferma. E in questo ossimoro risiede l’essenza di tutto il libro.
Che cosa ci dicono dal loro buio e dalla loro fredda luce i teschi e le reliquie che appaiono improvvisamente ai nostri occhi? Quale lingua muta si è congelata in quelle ossa? Quali passioni, quali violenze o quali preghiere dietro quei resti così inquietanti? E quali verità in quelle iscrizioni e in quelle immagini che accompagnano il nostro sguardo?
La testimonianza della morte unisce i testi in un viaggio catabasico che parla di esistenza e di destino, di ciò che è stato e di ciò che è ultimo, che rimane e si rivela negli ambulacri percorsi dal poeta.
C’è un sentimento religioso in questo itinerario, unito a un’ansia di verità che trascende ogni sorta di comoda pacificazione spirituale e che non esclude nel suo impeto l’invocazione o la sfida a Dio. Le città sotterranee, che esistono nascoste, al di sotto della superficie su cui si svolge la nostra vita consueta e distratta, con le loro gallerie, le loro ombre, i loro graffiti, insieme a ciò che resta dei corpi e agli oggetti circostanti, possono indurre alla fuga o alla riflessione. Manzoni sceglie la seconda, consapevole che esiste una lezione della morte per tentare di avvicinare con la parola poetica l’enigma e le contraddizioni dell’esistenza.
Come afferma Gian Franco Fabbri nella prefazione, qui il poeta si assume “il compito di registrare suoni e voci di una vita vissuta e parallela”, prendendo atto di “un coacervo di scambi – l’uno che prega il santo o la santa affinché intercedano presso Iddio per una contropartita di salvezza; l’altro che popola un vero e proprio mercato che accende interessi e perdoni”.
Questo a significare che il viaggio intrapreso è una meditazione sull’umano e non vuole allontanarsi dal groviglio dell’esistenza, il quale può comprendere scelte di vita estreme e moti dell’animo diversi, che ci interrogano nel loro mistero, tra verità e leggenda, come il martirio di Santa Caterina d’Alessandria “da cui sgorgarono gigli e margherite dalla vagina, / latte e miele dal collo, /quando depose la testa sul ceppo /  e la campana ne suonò la morte”, o la piccola Rosalia Lombardo, morta di polmonite a due anni, che “a volte apre e chiude gli occhi / e non manca molto che ti sorrida / o ti faccia un segno per illudersi / di non essere dalla parte / di chi più non vive”.
Nei testi di Gian Ruggero Manzoni la voce dei morti e quella della poesia s’incontrano, ma senza alcun compiacimento macabro, anzi. Ciò che emerge da questo libro anomalo e giustamente fuori dal coro, aldilà degli odierni ed insopportabili esercizi di stile, è la domanda circa l’esistenza, quell’interrogazione radicale che nasce dal profondo, ovvero dalle nostre catacombe, dove inaspettatamente è possibile coglierne il misterioso profumo.
Mauro Germani

Mario Bonanno: recensione a "La parola e l'abbandono"


Sono molto grato a Mario Bonanno per questa sua recensione a La parola e l'abbandono, pubblicata su SoloLibri.net  Qui

lunedì 17 giugno 2019

Luca Lanfredi - Il coraggio necessario



Luca Lanfredi, Il coraggio necessario, Lamantica Edizioni, 2019

In continuità con la raccolta precedente, Il tempo che si forma (L’arcolaio, 2015), Luca Lanfredi ci consegna una poesia sommessa, incrinata dal vuoto, e al tempo stesso segnata dall’esistenza, dove la parola appare senza enfasi alcuna, tra luce ed ombra, in momenti appena accennati, in “scatti brevi”, in movenze incerte tra passato e presente, “da una crepa di voce”. La pagina sorprende istanti e pensieri che attendono o che sono attesi, come se il loro manifestarsi fosse l’approssimarsi di qualcosa di ineluttabile o la conseguenza d’altro, un affiorare lento alla coscienza di una condizione esistenziale, di un disincanto: “la luce che ancora si frappone tra la distanza / e il guado che l’annienta”.
C’è spesso un prima e un dopo nei versi di Lanfredi: qualcosa che è accaduto una volta per sempre e che segna una sorta di confine più o meno sottile o marcato tra ciò che è lontano ed ormai sembra indicibile, in cui “ci si era solamente esercitati / a essere giovani, a dissetarsi, a / assolversi”, e ciò che si constata nel presente, perché “si entra nel tempo dei vuoti, adesso”. Un tempo prima del tempo, dunque, e un tempo vero, qui ed ora, sospeso ed esitante, dilaniato, o quasi cancellato da una fine - ma che comunque chiama: “Scorro le immagini al contrario, / iniziando da quelle più scure. / Dovrei darmi da fare, mi dici”: è lo stallo di chi non sa trovare un “vivere assoluto”, iniziare il suo giorno. O come chi cerca altrove se stesso e dice a tutti e a nessuno: “Né qui né lì”, perché la vita è cambiata, “è vita d’altra cosa”, e la propria inettitudine, la propria mancanza diventano una fuga impossibile, una fuga da fermo.
È inoltre possibile cogliere nei versi un tu ed un noi: presenze sfumate, appena accennate nelle loro scarne espressioni e nei loro semplici gesti, in un pudore che è scrittura sottratta eppure incisiva nella sua frammentarietà, ad indicare uno spazio da colmare nei tentativi della vita, negli affetti che vogliono esistere, a dispetto di un destino sradicato e nella segreta speranza di “aprire alla terra le parole”, come dice il titolo di una sezione del libro.
Lanfredi, con la sua poesia, accosta ed allontana, mette a fuoco e dissolve.
La sua è una voce che risuona da una distanza ed arriva fin dove qualcosa è successo, ma nella pronuncia si frange, declina, s’inabissa. In movimenti lenti, quasi impercettibili, i versi si aprono e si chiudono, lasciando tracce che sono, di volta in volta, rivelazioni d’esistenza, trasalimenti, ipotesi di realtà, domande o misteriose verità capovolte, come in una pellicola in cui i soggetti escono improvvisamente fuori campo, eppure qualcosa resta della loro presenza: un’ombra, una voce, un gesto. Ed è proprio attorno a ciò che resta che ruotano i versi di Luca Lanfredi: essi sono le conseguenze di una sparizione, e la parola – per il poeta, ma in fondo per tutti noi –  diventa un fantasma inafferrabile.
La sezione intitolata La città vecchia è attraversata da domande e da un’assenza percepita come distanza fra sé e sé: “Non ho mai detto di me: ho solo scritto”, in uno sdoppiamento tra vita e scrittura, o in un ritardo tra parola e tempo: “Come mai? Come mai / è sempre tanto tardi?”. La città, che “dicono” vecchia, conserva il passato ed è simile ad un linguaggio murato nel presente, ad una contraddizione insolubile di salvezza e di perdizione: “Chi vive non è mai salvo. / Chi vive non è perduto”. Questo a significare l’enigma dell’esistenza, dove il prima, il dopo e l’ancora sfumano nei versi i contorni del reale, del tempo e della stessa città, che forse è anche uno spazio letterario, al pari della poesia che “parla dei morti / come di quelli che non lo sono / più”, perché chiamati o addirittura divenuti essi stessi parola sfuggente e misteriosa.
E a questo punto – per meglio comprendere l’approccio alla poesia di Lanfredi – possono risultare illuminanti le parole di Maurice Blanchot, quando afferma che la scrittura poetica “non è data al poeta come una verità e una certezza a cui accostarsi; egli non sa se è poeta, ma non sa neanche che cosa è la poesia, e neppure se è; essa dipende da lui, dalla sua ricerca, dipendenza che tuttavia non lo rende padrone di ciò che egli cerca, ma lo rende incerto di se stesso e come inesistente”.
La riflessione di Blanchot bene si accosta al modo d’essere e al sentimento poetico di Luca Lanfredi, alla sua poesia solitaria, così lontana – per nostra fortuna – da quella spettacolarizzata e vanamente e narcisisticamente promossa sui social network da tanti, troppi autori contemporanei. Perché Lanfredi sa che la poesia ha bisogno di silenzio, di lavoro lungo e paziente: essa è misteriosa, c’è e non c’è, va chiamata ed ascoltata e non le si addicono i clamori, ed i poeti veri – poi –  che sono pochissimi,  non devono che assecondarla con la loro esistenza marginale, proprio come fantasmi d’Altro.
Così questa mancanza, questa dimensione di non appartenenza o di sostanziale ambiguità tra l’atto dello scrivere ed il poeta stesso, ha il corrispettivo in Lanfredi in una più vasta condizione esistenziale, vale a dire in quella terra di mezzo abitata dai suoi versi, nei quali chi parla, chi appare e scompare è nel tempo, è caduto nel tempo, tra un passato in parte ignoto ed un presente assediato dal nulla.
Non si sa se in questo scenario di privazione potrà succedere davvero qualcosa, magari una “vita nuova” o un’infanzia fondante, rigeneratrice. Ciò che resta, ora, è “l’essere ultimo di un durevole vuoto”, la volontà di capire ciò che manca o che svanisce allo sguardo interrogante: “Che si abbia / il coraggio necessario per vivere o morire / in quest’assenza”.

Mauro Germani
 (dall'Introduzione al volume)

giovedì 16 maggio 2019

Mauro Germani - La parola e l'abbandono



Mauro Germani, La parola e l'abbandono, L'arcolaio 2019


Aforismi, ricordi, trascrizioni di sogni, appunti letterari: in questi "lampi del pensiero" di Mauro Germani, scritti nell'arco di quasi un trentennio, ritroviamo i temi presenti nella sua poesia: il senso di uno smarrimento originario, la precarietà dell'essere, la coscienza di una sconfitta esistenziale, l'enigma dell'amore e del corpo, il dramma non risolto della religione. Qui, però, si aggiungono anche alcune annotazioni di carattere sociale e di costume, accompagnate spesso da una profonda amarezza e da qualche accento polemico. E nella misura esatta della brevità si profila ovunque una parola che appare sospesa "tra la vita e la morte" e che attesta drammaticamente la propria solitudine ed il proprio abbandono nel mondo.

(dalla quarta di copertina)

martedì 30 aprile 2019

Sergio Leone: il sogno del cinema




Se Borges ha scritto il sogno della letteratura, Leone ha filmato il sogno del cinema, ma con una differenza: l’operazione creativa di Borges è puramente intellettuale, quella di Leone è concreta, fisica, materica. In essa il linguaggio cinematografico è il corpo stesso del suo sogno, il suo sangue, la sua violenza, la sua epica. Perché i film di Leone non sono soltanto storie sapientemente costruite, ma incarnano il cinema stesso, cioè sono il cinema del cinema, il nostro occhio interiore, lo sguardo che incontra e vede il mito. E il mito non è astrattezza perché comprende, oltre al sogno, la realtà e la morte. Il mito è appartenenza, inconscio collettivo, individualità e comunità.
Il protagonista della trilogia del dollaro, interpretato da Clint Eastwood, non ha in fondo un’identità precisa: chi è? da dove viene? dove andrà? Egli, di volta in volta, è l’avventuriero astuto, l’infallibile bounty killer, il giustiziere, il destino. Compare come un fantasma e come un fantasma se ne va, ma ovunque lascia un segno di sé – un segno enigmatico, tra la vita e la morte. Il suo poncho non nasconde soltanto la corazza come alla fine di Per un pugno di dollari (1964), ma qualcosa di più: il segreto inaccessibile di sé stesso, che poi risulta essere il segreto del cinema.
I film di Sergio Leone consentono sempre una lettura stratificata, a più livelli. Come ogni mito sono onnicomprensivi. In essi la leggenda non è disgiunta dalla dimensione storica e quest’ultima è a sua volta attraversata dal sogno, che è quello dell’uomo e del cinema. Un cerchio perfetto. Un sogno dentro un sogno. Come le arene circolari delle grandi sfide, dove le vicende dei personaggi diventano altro, assumono una dimensione ulteriore, arcana e liturgica – complice la straordinaria musica di Ennio Morricone – ed i pistoleri si rivelano figure archetipiche, senza tempo. Non si può non citare, a questo proposito, il colonnello Douglas Mortimer, in Per qualche dollaro in più (1965), interpretato magnificamente da Lee Van Cleef (attore su cui in Italia non esiste colpevolmente neanche un libro, a differenza di altri paesi), che conferisce al personaggio la freddezza del pistolero esperto, con un passato militarmente glorioso, insieme ad un dolore intimo, ad una profonda lacerazione interiore, che si rivela solo alla fine, a vendetta consumata, quando se ne va solo, verso il tramonto.
Leone ha saputo raccontare il mito senza trascurare la realtà storica in esso contenuta, con grande attenzione al minimo dettaglio: precisione, frutto di ricerca documentata, al servizio del sogno che è il cinema.
Si pensi alle sequenze riguardanti la guerra di Secessione nel film Il buono, il brutto, il cattivo (1966): esse si possono considerare tra le più significative, in ambito cinematografico, non solo di quel conflitto, ma dell’atrocità della guerra in generale: il terribile campo di concentramento nordista di Betterville, l’interno della Missione di Sant’Antonio dove i frati francescani curano i feriti, lo scontro tra i due eserciti nemici per la conquista del ponte di Langstone non si possono dimenticare. Leggenda e realtà si fondono e ci trasmettono un senso di desolazione, di orrore e di pietà che resta dentro di noi.
In C’era una volta il West (1968), poi – grande affresco epico e lirico di formidabile efficacia – questo particolare processo linguistico risulta ancora più evidente. Qui il vecchio West, quello del nostro immaginario, sta ormai per finire. Il sogno di un’epoca e di un cinema deve lasciare spazio ad una civiltà contrassegnata dal capitale e dagli affari, come simboleggia l’avanzata della ferrovia verso l’Oceano Pacifico. I vecchi eroi sono destinati a sparire. Il mito incontra la morte di sé stesso e può sopravvivere solo in un sogno nostalgico, ossia nel c’era una volta.
Armonica, il protagonista, se ne va dopo la sua vendetta, ma – come dice Cheyenne, il bandito romantico, che morirà poco dopo –  “la gente come lui ha dentro qualcosa, qualcosa che sa di morte”, mentre al centro del film c’è la figura di Jill, donna forte e dolce al tempo stesso, che fa da tramite tra passato e futuro, unico personaggio destinato ad entrare nella nuova epoca che sta avanzando: incarna la vita che non si arrende e prosegue, nonostante la delusione ed il lutto che reca in sé. Essa si colloca tra il Mito e la Storia, quella che inizia proprio quando finisce il film. Solo in Jill i segni della morte sono uniti a quella della vita futura, che certo non sarà facile, ma che lei probabilmente saprà affrontare. Giustamente è stato osservato che tutti gli altri personaggi attendono di scomparire, sono una razza che non esisterà più, ed il film dilata i tempi come in una lunga e solenne agonia: un sogno (quello di Leone e nostro) che vuole ritardare la propria fine incombente ed ineluttabile.
Per questo C’era una volta il West è l’ultimo western di Leone (il successivo film Giù la testa non si può considerare tale), con il quale il regista conclude – dopo la cosiddetta trilogia del dollaro – la sua riscrittura del genere, ossia la rivisitazione in chiave personale e mitica insieme delle figure, dei luoghi e delle situazioni-tipo del cinema western. L’eroe solitario, le armi, la legge, la banca, il cimitero e la morte, il duello assumono nel cinema di Leone caratteristiche proprie, diverse rispetto ai western classici americani, all’interno di un linguaggio cinematografico nuovo, in cui vengono privilegiati i primi e primissimi piani, i dettagli ed una particolare attenzione viene dedicata ai dialoghi, alla colonna sonora (non solo musica, ma anche rumori), ai costumi, alla scenografia, persino ai titoli di testa, con effetti sorprendenti. C’era una volta il West comprende tutto questo, ma al tempo stesso conserva la memoria del western classico: è un omaggio e un addio melanconico ad un genere, ad un mondo e ad un sogno.
Un discorso a parte meriterebbe Giù la testa (1971), film che originariamente non avrebbe dovuto essere diretto da Sergio Leone (Rod Steiger e James Coburn pretesero che fosse lui il regista). Si tratta di un’opera complessa che – pur con qualche scompenso di sceneggiatura – segna anch’essa una fine: quella delle illusioni. Celebri sono le parole del peone messicano Juan Miranda rivolte al terrorista irlandese John Mallory: “Rivoluzione? Rivoluzione? Per favore, non parlarmi tu di rivoluzione! Io so benissimo cosa sono e come cominciano: c’è qualcuno che sa leggere i libri che va da quelli che non sanno leggere i libri, che poi sono i poveracci, e gli dice: – Oh, oh, è venuto il momento di cambiare tutto – […] Io so quello che dico, ci son cresciuto in mezzo, alle rivoluzioni. Quelli che leggono i libri vanno da quelli che non leggono i libri, i poveracci, e gli dicono: – Qui ci vuole un cambiamento – e la povera gente fa il cambiamento.  E poi i più furbi di quelli che leggono i libri si siedono intorno a un tavolo, e parlano, parlano, e mangiano. Parlano e mangiano! E intanto che fine ha fatto la povera gente? Tutti morti! Ecco la tua rivoluzione! Per favore, non parlarmi più di rivoluzione… E porca troia, lo sai che succede dopo? Niente! Tutto torna come prima”.
È il film più politico di Leone, nel quale i temi dell’amicizia, del tradimento e del rapporto tra la Storia ed il destino si intrecciano con le vicende private dei due protagonisti – un film sul fallimento degli ideali (John afferma: “Quando ho cominciato a usare la dinamite, allora credevo anch’io in tante cose…in tutte, e ho finito per credere solo nella dinamite”) e sulla solitudine e l’impotenza di fronte alla realtà (“E adesso io?”, si chiede Juan dopo la morte di John). Qui il Mito si è già disgregato, ci sono solo illusioni destinate a finire, e la Storia si annuncia come un immenso campo di battaglia notturno con il quale si conclude il film.
Il percorso artistico di Leone termina con C’era una volta in America (1984), che è ritenuto il suo capolavoro. Un film sul tempo e sul cinema, un’opera circolare, anzi concentrica ed ellittica, dentro la quale non solo c’è l’America degli anni Trenta con le sue contraddizioni, ma anche la memoria drogata di quel sogno che si forma all’interno della fumeria d’oppio dove si rifugia il protagonista Noodles e dove il pubblico assiste al teatro cinese, ossia alle ombre del Bene e del Male che si combattono su uno schermo bianco. Inizio e fine del film si sovrappongono al sogno del cinema e al sogno stesso di Noodles.
Realistico, violento, e al tempo stesso onirico, sfuggente, è il film che – più ancora di altri – racchiude magicamente il sentimento leoniano del cinema come visione mitica che non supera la realtà del mondo, ma meglio la interpreta e la vive. Anche qui sono presenti i temi dell’amicizia e del tradimento, legati entrambi all’ossessione del tempo, dei ricordi e dell’amore mancato. Nessuno è vincitore in questo film, perché ciascuno perde qualcosa di sé o del proprio sogno adolescenziale. Non vince Max, non vince Deborah e non vince nemmeno Noodles. A quest’ultimo (e a noi spettatori) resta soltanto il suo enigmatico sorriso nella fumeria d’oppio. Un sorriso per dimenticare, o forse ricominciare a ricordare nelle luci e nelle ombre del cinema e del suo sogno.
Mauro Germani





martedì 16 aprile 2019

Giovanni Testori - In exitu



Giovanni Testori, In exitu, Garzanti 1988

In exitu è una delle opere più estreme di Giovanni Testori, nella quale la scrittura è continuamente spezzata, lacerata, attraversata da uno spasimo atroce. C’è un balbettio, un singhiozzo che non ha requie nella voce di Gino Riboldi, il giovane drogato che si prostituisce ed è ormai arrivato alla fine della propria travagliata esistenza. Una voce di pena e di condanna, una voce di nessuno, ai margini della grande metropoli. Una voce che esce dal buio della carne crivellata dalle siringhe, dai visceri, dai ricordi improvvisi, dalle visioni che sconvolgono la mente e il cuore.

Testori scrive in una lingua deformata, un  impasto di dialetto, di latino e di italiano – una lingua martellante, reiterata, sempre incompiuta, che vuole essere tutt’uno col dramma del protagonista. Qui il respiro s’interrompe e riprende, diventa un rantolo, perché la contesa tra vita e morte prosegue fino allo strazio ultimo, fino alla fine. Scrittore e lettore sono chiamati, perciò, a uno sforzo estremo, che potremmo definire sacrificale, in quanto avviene dentro il corpo della scrittura, passa attraverso i suoi nervi, i suoi borborigmi, le sue afasie. Per questo Testori chiama a un sacrificio, di cui egli stesso è officiante e vittima, in uno sdoppiamento drammatico: si vedano, infatti, le parti in cui il protagonista si rivolge direttamente allo scrittore.

Leggendo In exitu, non si può non riflettere sulle questioni fondamentali – e più inquietanti – concernenti il rapporto tra parola ed esistenza, che ha segnato indubbiamente  tutta l’opera di Testori, in una tensione febbrile, cioè a dire mai squisitamente letteraria, ma ustionata dall’essere-nel-mondo, dalle passioni, dalle offese  che ci assediano e ci assalgono fin dalla nascita.

Non voleva certo essere neutrale, Giovanni Testori. Sia prima che dopo lo scandalo della conversione – suggellato dal monologo Conversazione con la morte, letto da lui stesso la sera della prima al Salone Pier Lombardo di Milano il 7 novembre 1978 e successivamente portato in diverse chiese – possiamo ravvisare un’urgenza esistenziale, un bisogno d’interrogare la vita, di scavare dentro la ferocia del venire al mondo per cercare o invocarne un senso, una significanza, tra bestemmia e preghiera. Mai nessuna difesa, dunque, nessuna distanza tra la vita e l’opera.

E anche In exitu – quest’opera ultima, terribile e al tempo stesso tenera nella sua crudeltà – vide la presenza, il 13 dicembre 1988, dello stesso Testori nel ruolo del lettore, accanto a una impressionante interpretazione di Franco Branciaroli, quando andò in scena alla Stazione Centrale di Milano (con il pubblico sulla scalinata ovest), luogo dove termina la via crucis di sofferenza, di sesso e di degradazione del protagonista. Una via crucis, le cui dolorose tappe avvengono “nella notte (marcia)”, nella città “coperta di nebbia (marcia) sulla groppa della città-cavalla. Viola. Nella notte. Marcia”, nella città “contristata”, “umiliata”, “derelitta”, “assediata”, dove “Lì, è. Lui (nessuno). Lì fu (nessuno). Lì era. Lui (nessuno). Lì sarà. Lui (nessuno)”.

Nulla viene risparmiato da Testori: perversioni, oscenità, violenze fisiche e verbali si alternano a momenti d’abbandono, di slanci di un amore offeso, dilaniato, ma che pure a tratti emerge da ogni nefandezza.

Perché tutto, in fondo, è un grido – un urlo impastato di disperazione, di rabbia ma anche d’invocazione, di richiesta di soccorso. Come se davvero la scrittura non fosse più in grado di tollerare l’esistenza e il suo abisso: troppa carne ferita, troppo dolore impronunciabile, troppo inferno, troppi marciapiedi, troppi cessi di dannazione, in cui nascondersi e sprofondare. Fino all’agonia, alle ultime visioni, alla vertigine. Come in un ritorno, una nuova nascita, finalmente, tra il vomito e il sangue: “Per l’eterno. Nella Goccia. Serrato su. Imbracciato. 'Me in una cuna. Pussè ammò. 'Me in una cà. La sua. La sua de lu. La sua de lu. La sua de lu. La sua de lu, mamma. La sua de lu, papà…”.

E alla fine, dopo la morte del protagonista, la scrittura si ricompone, nell’ultima splendida sequenza del libro:

“Quanti l’indomani, s’affrettaron per primi ai treni, lo videro. Coperta d’un lenzuol bianco, la barella, su cui era stato deposto, attraversò, infatti, l’intera stazione. Alcuni chiesero e seppero. Altri andarono oltre. Tutti, però, al passaggio, scorsero una sorta di luce che, lentissimamente, andava formandosi sopra il cadavere e pareva vincere il grigior delle volte e il buio di ciò che, di là da esse, risultava improprio definir alba, benché neppur possibile fosse ritener notte”.

Mauro Germani


venerdì 1 marzo 2019

Giovanni Testori - La Monaca di Monza



Dramma di straordinaria forza espressiva, pubblicato nel 1967, La Monaca di Monza di Giovanni Testori, dove i morti si fanno carne e parlano, gridano, soffrono su un palcoscenico che non vuole essere per lo spettacolo, ma luogo di rivelazione, di tragedia, di lotta contro sé stessi e il destino. Dramma di buio e di sangue, di passioni invincibili, di lacrime e di solitudini. Dramma di vita che si agita ancora nella morte e di morte con ancora addosso la vita. Dramma di rantoli, di amori terribili, di ipocrisie, di infamità, di gelosie senza requie. Dramma di religione spezzata, incompresa, sfidata, bestemmiata, ma anche invocata. 
La tragica storia di Marianna de Leyva - poi Suor Virginia contro la sua volontà – grida nella notte da sempre, nel cortile del convento di S. Margherita, e convoca i suoi spettri, “mucchi di polvere e stracci”, dentro Monza, dove “il Lambro continua a andare e andare…”.
Ed ecco nel buio, appena rischiarato dal lume di una lampada, lei vede Don Martino, suo padre, poi le suore e le converse, Maria Virginia, sua madre, Gian Paolo Osio, l’amante, e Caterina, Don Arrigone, il Vicario Criminale, e i soldati, i sicari, i monatti… Tutti lì, nell’ombra, come in un processo condannato all’eterno, in uno spazio che è e non è, in un tempo che è e non è. Marianna attrae ed allontana, e con la sua voce e la sua coscienza, supplica e maledice. Dietro ogni sudario c’è una vita che è pulsata ed ha incontrato altre vite, una vita contaminata e che ha contaminato. Dietro ogni morte, o meglio dentro ogni morte, c’è  un grumo di vita espulso, un corpo che è stato, una luce, uno sguardo, un abisso di carne vorace che inghiotte, oppure che è stata inghiottita. Per la terra e nella terra. Tra i vermi. Nell’ultimo grembo.
Perché la nascita di Marianna, allora? Perché quel destino prigioniero, quella disperazione fatale, quell’amore crudele ed assassino?
Il buio circonda tutti, viene da loro che sono morti senza morire e viene dai vivi, dal mondo. Ma non viene forse anche da Dio, che promette e poi abbandona? E dov’è mai Dio in questo spazio liminare, in questo confine desolato, in mezzo a questi fantasmi di carne offesi e lacerati? Dov’è colato e per chi, per dove il sangue di Cristo? “L’amore è veramente questo vento, è veramente questa tempesta?” si chiede Marianna. E poi: “Dov’è la giustizia? Dov’è la pace?”.
L’amore di Marianna è il desiderio della sua felicità, è il suo sogno maledetto, è il suo impulso vitale che ha gli occhi e la bocca di Gian Paolo, è la dolcezza e la crudeltà della carne, ma è anche la sfida a Dio, alla costrizione sofferta, alla menzogna, fino a diventare poi resa alla gelosia, al possesso esclusivo, al male e al delitto. Intorno a lei una catena perversa di ipocrisie e di atrocità. Una condanna che crea condanne.
E loro, i personaggi, cioè gli evocati e i convocati, sono tutt’uno con la tragedia di lei, generata senza amore, che inveisce contro il padre, colpevole di non avere amato Maria Virginia, morta di peste, sconciata da Dio, “lasciata morire sui gradini del palazzo, sola, in mezzo al ronzio delle mosche e ai vomiti dei cani”. Lei, Marianna, non voluta, allontanata e chiusa nel convento, precipitata nello scandalo, nell’amore più violento, nel male, per lo sguardo e i baci di Gian Paolo, per la sua bestemmia – come egli stesso confessa: “È da sempre che non dico altro che questo: volevo Virginia; la volevo per lei così com’era; la volevo per la sua carne; la volevo per la sua veste; ma soprattutto la volevo per la bestemmia”.
La rivolta di Gian Paolo è però diversa da quella di Marianna: è contro le regole, le leggi e tutto ciò che “nella vita appare logico e necessario”. Lei, invece, sente il male, ne avverte l’origine e l’inevitabilità, ciò che fa divenire l’uomo vittima di Dio. Non è forse Lui, “quel qualcuno o qualcosa che non toccheremo mai e che ci insegue come se volesse riprenderci sempre e costringerci a diventare sue prede”?
Marianna è ancora prigioniera: del suo corpo, del suo amore, di una malvagità originaria, di un Dio lontano e indifferente. Fino a quando? Potrà esserci finalmente un’alleanza? Potrà esserci pietà per la nostra condizione umana, per i nostri corpi dilaniati e offesi, per il nostro sangue violento e malato?
Sono queste le domande e le ossessioni di Testori, l’ultimo grande drammaturgo che abbiamo avuto, un autore che non si è mai risparmiato, che si è esposto con assoluta sincerità e che ha interrogato l’esistenza fino alla parola gridata o balbettata, al rantolo, nel buio del dolore e della sofferenza indicibile (si veda la sua opera forse più estrema, In exitu), alla ricerca – tra rabbia, solitudine e preghiera  - di un senso ulteriore, di una luce altra, di una pace.
Il dramma si chiude con un’invocazione che è insieme grido disperato e terribile preghiera: “Punta i tuoi occhi su questi stracci che ti bestemmiano, su questo niente che ti reclama. Te lo chiediamo con lo strazio delle nostre ossa e delle nostre carni finite. Liberaci dalla nostra carne; liberaci dal nostro sangue: liberaci dalla nostra morte. O distruggiti anche tu nella nostra carne, nel nostro sangue, nella nostra morte”.
Qui non possiamo che rabbrividire, in preda a una commozione profonda.
Mauro Germani





sabato 23 febbraio 2019

Ricordo di Angelo Conforti



Angelo Conforti (1949-2018)

Il film narra la storia di un uomo ossessionato dallo sporco. Era il 1977 e lo girammo principalmente a Milano e dintorni. Angelo aveva qualche anno più di me e lo avevo conosciuto poco tempo prima alla Scuola del Cinema del Comune di Milano. Tra noi ci fu subito intesa e in breve amicizia. Condividevamo non solo la passione per il cinema (volevamo fare i registi), ma anche per la letteratura e la filosofia. Ci piacevano gli stessi autori, avevamo gli stessi gusti. Forse perché eravamo giovani, mi sembra ci fosse in Italia, negli anni Settanta – pur tra mille contraddizioni e ingenuità -  un grande fermento culturale, una voglia di discutere, di partecipare, di creare, che poi non ho più ritrovato.
Fu naturale che Angelo e io, a un certo punto, decidessimo di collaborare.
Lui scriveva già come critico sulla rivista “Cineforum” e  insieme elaborammo il soggetto e la sceneggiatura di Non più oltre, il film sopracitato (della durata di più di un’ora), che poi realizzammo con impegno e passione, divertendoci molto.
Quella di Non più oltre è stata per me un’esperienza unica, che ricordo -  oggi più che mai - con profonda nostalgia, anche perché ha segnato l’inizio della collaborazione fra  me e Angelo. Per vari motivi il film è rimasto poi incompiuto: integralmente girato, ma privo del sonoro.
La passione per il cinema ci spinse poi a scrivere insieme altri quattro soggetti, mai realizzati in pellicola, che conservo ancora, fortunatamente,  in un cassetto, i cui  titoli provvisori (e rimasti tali) sono: Il bibliotecario, Morte di un musicista, Il seguace, Durango (quest’ultimo un western).
Devo dire che la nostra amicizia e la nostra stima reciproca non sono mai venute meno, nonostante ci siano stati alcuni momenti di lontananza.
Mi piace ricordare che Angelo è stato collaboratore di questo blog, recensendo in modo acuto e intelligente diversi film nella rubrica “Cinema e pensiero” e che ha collaborato al volume da me curato, L’attesa e l’ignoto. L’opera multiforme di Dino Buzzati (L’arcolaio, 2001), con un ampio intervento dal titolo Romanzi e racconti di Buzzati al cinema. 
Gli sono inoltre riconoscente per le sue note critiche ai miei libri Margini della parola Giorgio Gaber. Il teatro del pensiero: letture puntuali, chiare, attente, non superficiali.
Angelo è stato un uomo di profonda cultura e di grande sensibilità artistica, membro dell’Associazione Europea di Psicoanalisi, docente della Lunipsi, Libera Univesistas Psicoanalitica, e promotore di molte iniziative culturali, tra cui lo Psicofestival di Fidenza, giunto alla XIV edizione, al quale su suo invito ho partecipato più volte. Inoltre è stato fondatore e presidente del circolo cinematografico di Fidenza “La notte americana”. Come insegnante e studioso di filosofia, ha scritto – sulla base della sua esperienza didattica -  un manuale e-book per gli studenti liceali: Percorsi di filosofia.
Da non dimenticare, poi, due sue pubblicazioni: Scuola e televisione: il declino dell’Italia (CSA, 2010) e Facebook è inutile? (CSA, 2015), libri di notevole interesse, scritti con grande lucidità e con l’urgenza intellettuale di chi non è indifferente al proprio tempo e alle sorti del proprio Paese.
Quando un amico scompare, ci si sente più soli.  Così infatti è per me oggi.
Mi restano i ricordi dei bei momenti trascorsi insieme, i nostri progetti condivisi, i sogni della giovinezza negli anni Settanta, i suoi scritti, i suoi libri.
Ma lui, con la sua straordinaria intelligenza, col suo eccezionale intuito, con la sua capacità di leggere ed interpretare la realtà, mi mancherà.
Mauro Germani