lunedì 24 dicembre 2018

Aleksandr Blok, Paul Celan - I dodici




Aleksandr Blok, Paul Celan, I dodici (a cura di Dario Borso), L'arcolaio 2018

Interessante ed intelligente operazione editoriale, quella di riunire in un unico volume, a cura di Dario Borso, la traduzione dal russo de I dodici di Aleksandr Blok e la traduzione dal tedesco del medesimo testo nella versione di Paul Celan. Il poema, infatti, scritto da Blok nel gennaio 1918, venne poi tradotto quarant’anni dopo da Paul Celan, che si occupò anche di Esenin e di Osip Mandel’štam, accumunando così “tre poeti, la cui esistenza fu annientata dagli sviluppi involutivi della Rivoluzione d’Ottobre”, come afferma Borso nell’introduzione al libro.
I dodici  è un poema che ci trasporta, con una scrittura scossa e sincopata, in perenne movimento, nello spirito rivoluzionario del tempo, in quell’oltre non solo politico, ma anche esistenziale verso cui il nuovo corso storico sembrava tendere, in un  processo di fine, ma anche di principio, di impulso utopico e di rinascita, all’insegna di un cambiamento radicale, che non poteva non coinvolgere anche la parola poetica.
Così, con I dodici Blok abbandona il simbolismo, lascia le forme espressive già collaudate, ed approda ad una scrittura spezzata, ritmica, in marcia, mentre tutto è in divenire. L’intenzione era quella di rappresentare il nuovo che avanzava, la tenacia inarrestabile di un sogno in grado di travolgere il passato e di proiettarsi verso il futuro, alternando immagini emblematiche al dinamismo della parola. Blok dichiarerà, successivamente, nell’aprile 1920, spento ormai l'entusiasmo iniziale: “La verità è che il poema fu scritto in uno di quei periodi straordinari e sempre brevi, in cui il ciclone rivoluzionario in corso provoca una tempesta in tutti i mari – nella natura, nella vita e nell’arte”.
E la scrittura di Blok è qui simile ad una musica che si scompone e si ricompone nei passi e nelle voci dei dodici rivoluzionari che marciano, dentro il buio della sera, nonostante  imperversi una terribile bufera di neve. L’oscurità, il vento ed il ghiaccio non impediscono il loro procedere eroico, che è inframmezzato dall’apparizione di vari personaggi legati alla tradizione e destinati perciò ad essere travolti dal processo rivoluzionario in corso: tra gli altri, una vecchietta, un letterato, un prete, un borghese, còlti in pochi tratti, ma con ferocia e sarcasmo, nei loro atteggiamenti di paura e di rifiuto.
Tutto avviene nel vento, nel turbinio della neve, al passo della rivoluzione, tra i fuochi accesi intorno, coi berretti sgualciti, le cicche tra i denti, i fucili e le bandoliere. Sembra che qualcosa di superiore debba veramente affermarsi, al di là delle singole esistenze, qualcosa di epocale, che va ben oltre le vicende private di ognuno. E non è certo di poco conto l’episodio di Piotr, che uccide per gelosia la sua amata prostituta Katia, ma che poi i compagni riescono a ricondurre all’impegno rivoluzionario.
C’è movimento nel movimento, in questo poema, qualcosa che procede trasformandosi, e che di volta in volta è marcia trionfale, sberleffo, balletto, dramma, fino al colpo di scena finale, quando davanti al corteo dei dodici, “indifferente alla bufera, incede lieve, / perlaceo di neve attorno a sé” Gesù Cristo.
È questa un’immagine inaspettata, che compare improvvisamente e che lascia per un momento interdetti, ma che forse può essere compresa non tanto in un’accezione religiosa, quanto in una prospettiva di umanità nuova, di nuovo Regno sulla terra, di cui Cristo può essere considerato il simbolo-guida. A tal proposito, si può fare riferimento, solo a mo’ di esempio e per intenderci, al pensiero del tedesco Ernst Bloch, alla sua speranza di emancipazione, diversa dalla fede alienata, ma necessaria per coltivare uno spirito di utopia in vista di un Regno messianico di giustizia e di pace: questa aspettativa, probabilmente, non fu del tutto estranea anche al poeta russo, almeno al momento delle prime fasi della rivoluzione. Dopo, infatti, Blok rimase profondamente deluso dagli esiti del processo rivoluzionario, si trovò politicamente sempre più isolato ed avvilito e lo stesso poema non ebbe vita facile. E questo è un altro argomento di interesse nei confronti dell’opera di Blok, che inevitabilmente ci interroga sul  rapporto quanto mai controverso e conflittuale tra ideologia ed esistenza, tra utopia e storia. Altro elemento degno di attenzione è costituito poi dalla traduzione di Celan, che rende il testo ancora più dinamico, incalzante e franto rispetto all’originale, mediante "una nominalizzazione spinta", come sottolinea Dario Borso nella già citata introduzione.
Non pochi sono dunque i motivi di riflessione e di discussione che offre questa particolare, elegante ed accurata edizione de I dodici, che raccomandiamo al lettore.

Mauro Germani



sabato 1 dicembre 2018

LA CITAZIONE (n. 16) - Jorge Luis Borges



“All’altro, a Borges, accadono le cose. Io cammino per Buenos Aires e indugio, forse ormai meccanicamente, a guardare l’arco di un androne e la porta che dà a un cortile; di Borges ho notizie attraverso la posta e vedo il suo nome in una terna di professori o in un dizionario biografico. Mi piacciono gli orologi a sabbia, le mappe, la stampa del secolo XVIII, il sapore del caffè e la prosa di Stevenson; l’altro condivide queste preferenze, ma in modo vanitoso che le muta negli attributi d’un attore. Sarebbe esagerato affermare che la nostra relazione è di ostilità; io vivo, mi lascio vivere, perché Borges possa tramare la sua letteratura, e questo mi giustifica. Non ho difficoltà a riconoscere che ha dato vita ad alcune pagine valide, ma quelle pagine non possono salvarmi, forse perché ciò che v’è di buono non appartiene a nessuno, neppure all’altro, ma al linguaggio o alla tradizione. D’altronde, io sono destinato a perdermi, definitivamente, e solo qualche istante mio potrà sopravvivere nell’altro. A poco a poco vado cedendogli tutto, sebbene conosca la sua perversa abitudine di falsificare e ingigantire. Spinoza intese che tutte le cose vogliono perseverare nel loro essere; la pietra eternamente vuol essere pietra e la tigre, tigre. Io resterò in Borges, non in me (seppure sono qualcuno), ma mi riconosco meno nei suoi libri che in molti altri o nell’elaborato arpeggio d’una chitarra, Anni addietro cercai di disfarmi di lui e passai dalle mitologie dei sobborghi ai giuochi col tempo e con l’infinito, ma codesti giuochi ormai sono di Borges e dovrò ideare altre cose. Così la mia vita è una fuga e io perdo ogni cosa e tutto è dell’oblio, o dell’altro.
Non so chi dei due scrive questa pagina.”

Jorge Luis Borges, Borges e io, in L’artefice, Rizzoli, 1982