martedì 25 settembre 2018

Scipione (Gino Bonichi) - Le stelle cadono accese



Scipione (Gino Bonichi), Le stelle cadono accese, Raffaelli


Scipione - Apocalisse (Il sesto sugello)



Scipione - Gli uomini che si voltano


Versi tra luce e buio, quelli di Scipione (Gino Bonichi, 1904-1933).
Parole che dicono epifanie misteriose, attese dentro la terra e colpite dal cielo, carni che cercano sorgenti e lievitano nel mondo. 
Dieci poesie che s’innalzano e che scendono, come in un’apocalisse quotidiana e segreta. Segreto che avvicina il segreto, il fiato dell’uomo e della notte, quando “le stelle cadono accese”.
Versi segreti, appunto, detti nella visione, nella meraviglia febbricitante, nella consapevolezza che "la terra ha tutti i nascondigli", nella malattia che cerca redenzione. E al pari di ogni cosa il poeta attende, "abbacinato / come un foglio bianco", così come il cielo è "in attesa / dei gridi che lo squarciano". Natura che è carne, che respira, che è fuoco ed ombra.
Scipione: pittore della cosiddetta “Scuola Romana”, di quella luce che sa di terra rossa, di rivelazione sensuale e mistica, che sbava sulle cose e sui volti. Pittore estremo e poeta estremo, perché così dev’essere l’arte vera, quando tocca la terra e al tempo stesso cerca l’aldilà e lo chiama, in un’estasi ferita, nell’abbandono. “Tutto ci abbandona a nostra insaputa” – scrive Scipione, consapevole del miracolo e della perdita, dentro la carne ed oltre.
Vita brevissima, segnata prima dalla pleurite, poi dalla tubercolosi, ma soprattutto da un’urgenza irrefrenabile di avvicinare i confini, di darsi interamente all’arte e ai suoi agguati, come fosse sempre l’ultima volta. Ansia di assoluto e di riscatto, sull’orlo di un precipizio, mentre “la folgore scrive nel cielo / i caratteri di Dio”.
Senso religioso, o addirittura non senso religioso, a dire l’attesa, l’enigma, “la notte nera e perversa”, quando la terra è secca e ha sete, vuole bere, “ché vuol peccare / e farsi perdonare”, oppure quando "le civette gridano, tutto si muove / e l'angoscia riempie l'aria / di inquietudine".
Poeta inclassificabile, come scrisse Amelia Rosselli nell’introduzione al volume Carte segrete, edito da Einaudi nel 1982: e proprio inclassificabile è in fondo la poesia che non vuole essere da salotto, né tanto meno da esibizione (come spesso accade oggi), perché unicamente mossa dall’esistenza che la scuote.
Dieci poesie da leggere e rileggere trattenendo il respiro, in ascolto, in punto di – come per essere afferrati dai versi, e poi cambiare e sparire, in questa sobria ed elegante edizione contenente anche alcuni dipinti di Scipione ed una interessante ed incisiva prefazione di Davide Brullo, il quale avverte che  “si scrive sempre da un deserto fuori dal tempo […], un quartiere prima della morte”.
Mauro Germani

giovedì 6 settembre 2018

LA CITAZIONE (n. 14) - Giacomo Leopardi



Folletto. Voi gli aspettate invan: son tutti morti, diceva la chiusa di una tragedia dove morivano tutti i personaggi.
Gnomo. Che vuoi tu inferire?
Folletto. Voglio inferire che gli uomini son tutti morti, e la razza è perduta.
Gnomo. Oh cotesto è caso da gazzette. Ma pure fin qui non s’è veduto che ne ragionino.
Folletto. Sciocco, non pensi che, morti gli uomini, non si stampano più gazzette?
Gnomo. Tu dici il vero. Or come faremo a saper le nuove del mondo?
Folletto. Che nuove? che il sole si è levato o coricato, che fa caldo o freddo, che qua e là è piovuto o nevicato o ha tirato vento? Perché, mancati gli uomini, la fortuna si ha cavato la benda, e messosi gli occhiali e appiccato la ruota a un arpione, se ne sta colle braccia in croce a sedere, guardando le cose del mondo senza più mettervi le mani; non si trova più regni né imperi che vadano gonfiando e scoppiando come le bolle, perché sono tutti sfumati; non si fanno guerre, e tutti gli anni si assomigliano l’uno all’altro come uovo a uovo.
Gnomo, Né anche si potrà sapere a quanti siamo del mese, perché non si stamperanno più lunari.
Folletto. Non sarà gran male, che la luna per questo non fallirà la strada.
Gnomo. E i giorni della settimana non avranno più nome.
Folletto. Che, hai paura che se tu non li chiami per nome, che non vengano? o forse ti pensi, poiché sono passati, di farli tornare indietro se tu li chiami?
Gnomo. E non si potrà tenere il conto degli anni.
Folletto. Così ci spacceremo per giovani anche dopo il tempo; e non misurando l’età passata, ce ne daremo meno affanno, e quando saremo vecchissimi non istaremo aspettando la morte di giorno in giorno.
Gnomo. Ma come sono andati a mancare quei monelli?
Folletto. Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male.

Giacomo Leopardi, Dialogo di un folletto e di uno gnomo, in Operette morali.