giovedì 30 agosto 2018

Gottfried Benn - Morgue


Gottfried Benn, Morgue, Einaudi, 1971

Le prime poesie di Gottfried Benn sono contraddistinte da un livido espressionismo, qua e là punteggiato da note sardoniche. Il poeta descrive la condizione umana segnata dalla fine, quando la decomposizione è ormai in atto, oppure è prossima a manifestarsi. L’irreparabile incombe in tutti i testi di Morgue come una condanna fisiologica che disintegra i corpi mediante una esecuzione incessante, a cui il poeta assiste con la freddezza di un anatomopatologo. E leggendo questi versi si comprende che per Benn la malattia è in realtà l’esistenza stessa, che risulta minata ab origine: l’infezione nasce nella carne, nella materia e non l’abbandona più, così come si evince dalla terribile e paradossale Requiem, nella quale ciò che resta della pulsione di vita nei tronconi dei corpi all’obitorio viene cooptato dalla morte in una sorta di infernale capovolgimento: “Due su ogni tavolo. Di traverso / tra loro uomini e donne. Vicini, nudi, / eppur senza strazio. Il cranio aperto. / Il petto squarciato. Ora figliano / i corpi un’ultima volta”.
Il Benn di questi testi non è ancora quello della cosiddetta staticità poetica. Qui – come afferma Ferruccio Masini nella prefazione – “si svellano e si amputano i nervi e i tendini che assicurano l’uomo al mondo; qui si fa del mondo un immenso cadavere”.
Questo annichilamento progressivo dell’esistenza opera in Benn una riduzione totale di ogni atto umano, che appare inutile ed assurdo, perché cerca di nascondere la propria verità profonda, cioè la putrescenza della carne. 
L’uomo è smembrato, è un cervello, o un insieme di organi destinati a perdersi, a ritornare alla terra, ma senza alcuna rinascita possibile: “Carne si livella al suolo. Fiamma si dà via. / Umore si appresta a colare. Terra chiama”. 
Non c’è nulla di sentimentale in Benn. Gli esseri umani s’incontrano e si accoppiano spinti da una forza naturale a cui non possono sottrarsi, ma che un giorno rivelerà il loro niente, nello spietato raffronto tra il prima e il dopo, tra l’incoscienza vitale di ogni amore o passione e la rigidità del cadavere.
Accanto a questa tematica centrale, si può rilevare, tra le altre, la nostalgia per gli antenati primevi (“l’uomo della selva primeva / che tutto dal suo ventre genera”), in contrapposizione alla ferita della propria nascita, presente nella poesia Madre: “Come una ferita porto te / sulla fronte, che non si rimargina”.
La lettura di questo primo Benn ci inserisce così in una dimensione esistenziale ultima, frantumata, tra la verità terribile della scienza e la consapevolezza che l'uomo è fatalmente condannato non solo dalla propria nascita, ma anche dal proprio tempo.
Mauro Germani