mercoledì 27 giugno 2018

Thomas Bernhard - Il loden



Thomas Bernhard, Il loden,  Edizioni Theoria, 1988

Ripropongo una mia nota critica a Il loden di Thomas Bernhardapparsa sul primo numero della rivista “margo” nell’ottobre del 1988 e successivamente pubblicata nel volume Margini della parola (La Vita Felice, 2014).

Anche questo racconto di Bernhard, pubblicato per la prima volta in Germania nel 1971, costituisce, come le altre opere dello scrittore austriaco, un vortice del perturbamento, dove la scrittura è una specie di frase ossessiva, continuamente lacerata, eppure interminabile.
Ed è proprio all’interno di una fissazione, simile a tratti ad un vuoto delirio, che Bernhard (questo “recensore del caos”, come l’ha definito Claudio Magris) ha ideato la semplice ma inquietante storia di Humer, anziano proprietario di un negozio di rivestimenti interni per bare del Tirolo, uomo alla deriva, vittima di se stesso e del mondo ormai incomprensibile, a cui non resta che la ripetizione continua di parole sconnesse e malate da pronunciare come se fosse sempre l’ultima volta.
In preda all’angoscia della perdita (l’appartamento nel quale viveva da decenni e che il figlio e la nuora hanno indotto a lasciare fino ad obbligarlo a vivere in soffitta, lontano dal proprio negozio) si rivolge all’avvocato  Enderer, ma il dialogo è solo apparente. Humer sviluppa piuttosto uno dei tanti soliloqui bernhardiani (quello del principe Saurau di Perturbamento e del pittore Strauch di Gelo, per citarne alcuni) ancora una volta “sugli orli del vuoto lasciato dalla colonna che reggeva il mondo” – per usare un’espressione di Giorgio Cusatelli.
Questo tipo di angoscia – intesa come perdita di un’abitudine ad un mondo e più in generale come lutto davvero universale – è spesso presente nelle pagine di Bernhard , in cui “l’individuo pensante si ritrova sempre più in un immenso orfanotrofio”, come afferma nel suo lucido delirio il principe Saurau in Perturbamento ed il linguaggio percorre l’estrema periferia di un centro smarrito. Qui infatti la narrazione ha origine da una voce impersonale che presenta e contiene due diverse articolazioni linguistiche che volutamente si intersecano disgregandosi a vicenda: quella di Humer e di Enderer in prima persona.
Tutto, allora, non è che la citazione di una citazione, in quanto tutto è già stato detto. Ciò che sconvolge l’incontro tra i due personaggi è proprio il loden indossato da Humer, nel quale Enderer riconosce quello di suo zio, suicidatosi anni prima nel fiume Sill. Il protocollo che l’avvocato redige smarrisce sempre più la propria funzione di obiettiva verbalizzazione (un metodo come un altro di controllo inutile del caos) ed è continuamente interrotto e stravolto dal fantasma del loden, vero protagonista del libro, oscuro significante di un destino-necessità ormai senza più significato, che provoca  il progressivo e lacerante passaggio dal panico del senso al senso del panico e del fallimento. Humer se ne va improvvisamente senza neppure firmare la procura generale e si suicida qualche giorno dopo; Enderer  si reca alla casa del defunto per riavere il loden che era stato di suo  zio. I puntini di sospensione finali lasciano intuire un probabile epilogo tragico anche per l’avvocato. Ciò che deve, ineluttabilmente sarà.
Mauro Germani

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