mercoledì 29 novembre 2017

Concetta D'Angeli - Tempo fermo



 Concetta D’Angeli, Tempo fermo, Pacini Editore, 2017

Con questo suo romanzo d’esordio, vincitore nel 2016 del premio letterario “Edizione straordinaria”, Concetta D’Angeli ci consegna un’opera che suscita non poche riflessioni sul rapporto - quanto mai ambiguo, ma fondamentale - tra arte e vita. Infatti, la vicenda della protagonista, la cantante lirica Maddalena Canevari, che negli anni Venti, al culmine del successo, decide improvvisamente di abbandonare le scene e di ritirarsi per il resto dei suoi anni nell’isola di Ponza, pone al lettore -  in modo non esplicito, ma attraverso una narrazione assai efficace - una serie di interrogativi non trascurabili circa le possibili relazioni tra il fenomeno artistico in genere e l’esistenza, tra la creatività ed il nostro essere nel mondo.
Maddalena interrompe bruscamente la sua carriera e sceglie la solitudine. Perché? Nel romanzo non c’è giustamente una risposta precisa a questa domanda (che resta viva nella mente del lettore per tutta la narrazione), ma si può affermare che la scelta della protagonista è dettata da una delusione profonda circa la capacità dell’arte di “salvare la vita”. Il disinganno per Maddalena è traumatico: l’arte non è taumaturgica, non può sostituirsi alla vita né guarirla, in quanto nessun miracolo può sconfiggere i drammi dell’esistenza. Sarà l’amore sfortunato per Tommaso (che ha una concezione “cosmica” dell’arte e del teatro, aldilà della separazione tra arte e vita)  a segnarla profondamente e a far cadere ogni illusione, come rivela la profonda amarezza delle sue parole: “L’arte non è che la parodia della vita”. E poi: “A che serve l’arte? Per esibirsi? Per divertirsi? A che serve se non sa sconfiggere la morte?”.
Domande queste che possono sembrare ingenue, ma che in realtà sottendono una problematica sempre attuale, soprattutto oggi, in cui domina una cultura-spettacolo da esibizione, mercificata, narcisistica, che sembra proprio sostituirsi a quanto di profondo o di innominabile c’è nell’esistenza, in una sorta di incoscienza collettiva. Maddalena preferisce ritirarsi nella sua villa. Anche questa può essere una fuga dalla vita, come un po’ lo era stata la sua arte -  e per di più comoda, grazie alla ricchezza accumulata - ma fa pensare. Il personaggio di Maddalena incarna le contraddizioni o le problematiche con cui spesso un artista deve fare i conti, come il rapporto col proprio passato dedicato all’arte. Tra orgoglio e scontrosità, tra reticenze e confessioni, Maddalena, ormai vecchia, accetta di rivelarlo a Eugenio Dandoli, ricercatore presso la cattedra di Storia della Musica all’università di Napoli, che – insoddisfatto della propria esistenza -  la intervista nel tentativo di riscattare il proprio fallimento intellettuale.
Le domande e le relative risposte costruiscono così un mosaico narrativo che spazia dal presente al passato e viceversa e che costituisce la struttura portante del romanzo. La scrittura di Concetta D’Angeli, molto curata e plastica nel delineare i personaggi, rivela la propria duttilità stilistica nei dialoghi (è stata insegnante di Letteratura e Drammaturgia teatrale all’Università di Pisa), nei quali il lessico specifico di ognuno (si vedano, ad esempio, le espressioni gergali toscane di Agatina e quelle napoletane di Salvatore, il segretario e confidente di Maddalena) conferisce veridicità e vivacità al racconto. Da aggiungere, poi, l’attenzione agli ambienti e ai dettagli storici, nonché l’uso pertinente della terminologia relativa al mondo della musica e del melodramma, che Concetta D’Angeli ha studiato con passione per la costruzione della vicenda. Occorre poi dire che fa piacere constatare, in questo romanzo, l’interesse per lo stile, per la ricerca di una propria autonomia di scrittura e di espressività, cosa che purtroppo oggi manca in molte opere narrative.
A lettura ultimata, non si può non riflettere sui  personaggi principali.
A ben vedere, essi sono tutti chiusi nella loro solitudine e nel loro mondo, tutti in qualche modo delusi o sconfitti. Per ciascuno, il presente è senza particolari aspettative, un tempo fermo, che però non è quello dell’arte, piuttosto del ricordo, della malinconia o del silenzio. Maddalena ha scelto il proprio ritiro dal mondo; Salvatore convive in solitudine con la propria diversità, sembra vivere di riflesso, prendendosi cura di Maddalena e di Leonora, la figlia cerebrolesa di quest’ultima; Eugenio comprende il suo impossibile riscatto. C’è però il mistero di Leonora e del suo mondo “incontaminato” e soprattutto del suo canto solitario, che improvvisamente si rivela nelle ultime, bellissime pagine del libro, come un’arte che sembra davvero pura e che nasce dalla profondità della vita, senza artifici, finzioni o compromessi.

Mauro Germani

sabato 25 novembre 2017

LA CITAZIONE (n. 5) - Emil Cioran



"A volte comprendo tutto quel che ha a che fare con l'esistenza, ma non sono mai riuscito a chiarirmi cosa significhi l'esistenza stessa. Nessun labirinto dei pensieri mi è sembrato inaccessibile in maniera assoluta, ma sono rimasto sempre perplesso e confuso dinanzi a questa evidenza incompresa e indimostrabile: io sono. La coniugazione di essere, del verbo più banale e più enigmatico, è un ardimento assurdo, un salto quotidiano e mortale della mente che, pensato in fondo, scervellerebbe anche lo spirito più equilibrato. Ci affatichiamo nelle faccende della vita solo dedicandoci anima e corpo ai suoi ondeggiamenti. Se partissimo dall'analisi d è, c'impantaneremmo  per sempre sulla soglia del primo atto. Viviamo tutti nelle forme dell'esistenza, perché se ci fermassimo al suo fondamento, a quel che è, perderemmo l'equilibrio della mente e il coraggio di qualunque gesto; lo stupore minerebbe la nostra fiducia insensata nel futuro del tempo, diventando follia. Essere ci si impone come una necessità ultima, che ciononostante non realizziamo. Giacché non esiste alcuna ragione perché l'esistenza sia, nessun argomento per la sua 'esistenza' , nemmeno per la nostra. I motivi che invochiamo sono pretesti, un gioco poco onorevole dinanzi alla luce dello spirito. E questa luce viene sconvolta, smembrata non appena l'io ripete a sé stesso: io sono, io sono - come se l'inizio della coniugazione in generale, dell'accenno di vita, ci posizionasse d'un tratto, insieme agli elementi più semplici della conoscenza, nella nullità di quest'ultima e nella nullità in quanto tale."

Emil Cioran, Divagazioni, Lindau, 2016

giovedì 9 novembre 2017

Jean-Paul Sartre - Il muro


Straordinario libro di Sartre, uscito in Francia nel 1939 e in Italia nel 1947, Il muro si compone di cinque racconti, cinque “piccole disfatte” nei confronti dell’esistenza, come li definì l’autore,
Dopo il diario filosofico di Antoine Roquentin , protagonista solitario de La nausea, afflitto dalla gratuità incomprensibile dell’esserci e da un profondo senso di non appartenenza, Sartre ci presenta con neutralità fenomenologica e con una cifra stilistica inconfondibile, contrassegnata dalla nudità della parola ma anche dalla sua improvvisa vertigine, cinque personaggi senza scampo, condannati allo scandalo dell’esistenza.
L’analisi feroce di Sartre scava all’interno dei protagonisti, rivelando le paure, le contraddizioni, gli artifici, le menzogne, i deliri che si nascondono in loro stessi, senza psicologismi, ma con una scrittura secca, essenziale, capace di penetrare l’abisso della natura umana esposta al rischio dell’ex-sistere. Tutto è possibile in questa visione radicale di Sartre, in quanto non c’è giustificazione dell’esistenza, non c’è alcun fondamento e numerose possono essere le risposte umane all’insensatezza, come casi clinici destinati a riempire il loro nulla. Ne sono un esempio i due racconti più riusciti della raccolta: La camera ed Erostrato.
Nel primo Sartre descrive con notevole efficacia e con rara intensità poetica la follia schizoide di Pietro, che a poco a poco contagia la moglie Eva, la quale a sua volta vorrebbe segretamente diventare come lui per allontanarsi definitivamente dal mondo e dalla vita reale rappresentata dalla “normalità” degli anziani genitori. Follia presente anche in Erostrato, straordinario racconto in cui il protagonista è un personaggio che disprezza gli uomini, che cerca di esistere alimentando l’odio nei confronti degli altri da cui è disgustato e che vede sicuri e arroganti nella loro continua recita sociale. Un personaggio al limite del mondo, che non capisce se stesso e la vita, che non ama nessuno e vuole distinguersi dal resto dell’umanità verso cui prova orrore, ansioso di compiere un gesto estremo contro tutti per essere finalmente qualcuno, ma che poi sviene davanti al sangue e non riconosce più le proprie azioni. (E cogliamo qui l’occasione per citare l’eccezionale riduzione teatrale in forma di breve monologo che di questo brano fecero Giorgio Gaber e Sandro Luporini all’interno dello spettacolo Anni affollati della stagione 1981/1982 con il titolo L’anarchico).
Sono spesso situazioni estreme quelle che Sartre ci presenta con questi racconti, esperienze che rivelano la miseria umana, l’incerto confine tra verità e menzogna, normalità e follia, oppure il conflitto tra ideologia ed esistenza. Storie che intendono mettere a nudo, spogliare l’uomo dalle maschere che si costruisce, fino ad arrivare al vuoto della presenza, quella libertà che confonde e sconvolge e che ci fa sentire di troppo, che ci chiama ad inventare un destino. Ecco allora la storia di Pablo, protagonista del racconto che dà il titolo al volume, un giovane condannato durante la Guerra di Spagna, che aspetta l’alba per essere fucilato insieme a due suoi compagni e durante l’attesa pensa alla morte che “disincanta ogni cosa” e rende tutto incompiuto ed incomprensibile. C’è poi la Lulù di Intimità, che mente a se stessa ed è incapace di cambiare la propria esistenza, rassegnata ad una vita senza soddisfazioni, prigioniera delle proprie abitudini e delle proprie finzioni. Infine Lucien, protagonista dell’ultimo racconto, Infanzia di un capo (quasi un romanzo breve), che sceglie di non scegliere, di conformarsi a ciò cui è destinato secondo la classe sociale di appartenenza, la borghesia industriale reazionaria e antisemita, nascondendo ipocritamente in essa le ombre inquietanti della propria personalità.
La disfatta incontra il muro dell’esistenza e non risparmia nessuno dei personaggi di questo bellissimo libro che – occorre ricordare – fece scandalo: venne messo all’Indice da parte della Santa Sede (come tutta la produzione di Sartre), subì l’accusa di pornografia in alcuni paesi e in Italia l’editore Einaudi (che vedeva tra i suoi collaboratori Pavese, Vittorini, Natalia Ginzburg e il giovane Calvino) subì un processo da cui per fortuna uscì assolto.
Mauro Germani


da Margini della parola. Note di lettura su autori classici e contemporanei, La Vita Felice, 2014

mercoledì 1 novembre 2017

LA CITAZIONE (n. 4) - Roberto Carifi



Ma a noi poeti tocca stare
nella vertigine dei nomi
l’orecchio teso ad ascoltare il No,
l’eterno bruciare delle giubbe
che i morti hanno indossato.
Per noi la notte ha in serbo
sorelle nate dalla guerra
con la sola arma del pianto,
nude bandiere
colorate di gelo e di spavento,
e qualche lume spento
nell’occhio naufragato
dall’esilio.

da Roberto Carifi, Europa, Jaca Book, 1999