mercoledì 19 luglio 2017

Mauro Germani e la sua voce interrotta



Mauro Germani, Voce interrotta, Italic Pequod, 2016


Ringrazio di cuore Marco De Novis per questa sua lettura di "Voce interrotta" e della mia poesia in generale.

Leggendo quest’ultima raccolta poetica di Mauro Germani viene spontaneo interrogarci sul titolo Voce interrotta. Che cosa significa?  Qual è la causa dell’interruzione o della sospensione di questa voce? E’ evidente che in questione è proprio la voce stessa della poesia, il suo annuncio ed il suo modo di rivelarsi.
I versi brevi di Germani ci introducono in una dimensione in cui non pare azzardato affermare che qui la cosiddetta casa dell’essere sembra priva di fondamenta, una casa vacillante, precaria, minata da un’antica rovina. Parafrasando Ungaretti (ma, ovviamente, con una traslazione di significato), si potrebbe dire che di questa casa non è rimasto che qualche brandello di muro. La famosa asserzione di Heidegger, la poesia è la casa dell’essere, non risulta quindi attinente ai testi di Germani, se non in una accezione negativa, di mancanza o di assenza: la poesia è in realtà senza casa, proprio perché ciò che viene meno è la consistenza ontologica, in quanto è prima ancora l’essere a sfuggire, a non avere una propria dimora stabile e l’esistenza non è altro che spaesamento.
Tutte le poesie di Mauro Germani, da Livorno (2008) a Terra estrema (2011), per citare solo le ultime raccolte, sono contrassegnate dallo smarrimento esistenziale, dalla consapevolezza di una perdita originaria, da un abbandono nel mondo: “Io non so più le parole / a ridosso del mondo. / Una voce è dentro qualcosa, / è un’ora senza custodi  /  senza perdono”.
Come ha scritto molto acutamente Rinaldo Caddeo a proposito di Livorno, quella di Germani è poesia “di una manque non solo come estraneità radicale, assenza e inappartenenza, ma anche come impossibilità nel presente dell’esistenza stessa” (“Margo”, 2 aprile 2010). 
La voce della poesia, e dunque nella fattispecie di Germani stesso, non può che essere interrotta, quasi un singhiozzo tra i resti dell’esistenza e della memoria. La parola qui non salva e nemmeno resiste di fronte allo sfacelo e al nulla: semplicemente dice e s’arresta davanti all’impossibilità: “E’ una parola / impossibile, un gesto / che salta le righe, / l’inchiostro bianco / che scrive l’abisso”.
Che cosa può, infatti, la parola davanti alle esperienze estreme del dolore, del sangue e della morte? I versi potranno mai restituirci pienamente il dramma dell’esistenza? Quelli di Germani hanno una chiara matrice esistenziale, nascono dalla vita dell’autore, sono intimamente legati al suo mondo, in cui assumono particolare importanza i temi dell’infanzia, della solitudine, del sogno infranto, del corpo scisso (si veda, a questo proposito Terra estrema) e del rapporto enigmatico con l'assoluto. Occorre precisare che la poesia di Germani non è astratta oppure evanescente, come si potrebbe pensare da quanto evidenziato all’inizio di questa nota, ma appare radicata in un mondo minacciato dal vuoto. Il poeta riesce in pochi versi a trasmettere la lacerazione e l’incomprensibilità dell’esistenza, il dramma della carne offesa e perduta, il sogno di un’integrità personale desiderata e mai raggiunta.
Nel poemetto Indizi, che costituisce l’ultima sezione del libro, si conferma l’intento poematico già espresso in passato da Germani, sia in prosa che in versi (si vedano L’attesa dell’ombra, 1988; L’ultimo sguardo, 1995; Come un destino in Livorno, 2008, e le sezioni Voci e Terra estrema in Terra estrema, 2011), che qui è però contraddistinto da una espressività nuova, più frantumata, senza interpunzione. Il testo in versi, formato da quattordici brevi stanze o momenti, unisce il tema dell’identità impossibile (l’aggettivo impossibile o il sostantivo impossibilità ricorrono più volte nell’intero volume) a quello della crudeltà e della violenza. Nessuno sa chi è veramente e spia l’altro in un gioco di specchi folle e disperato; il sottotitolo recita infatti: Poemetto delle verità presunte o degli osservatori osservati. C’è forse qualcosa dell’ultimo Caproni in questo lavoro in cui le parole si rifrangono, non danno tregua e assediano il lettore con grande perizia, togliendogli ogni certezza, persino quella relativa alla distinzione tra vita e morte, come se fossero dimensioni intercambiabili: “ e loro coi visi / nelle piazze, loro / nel freddo viola / della notte / loro senza un paese / loro infantili e già morti / noi”. Credo non sia sbagliato comunque aggiungere che lo smarrimento esistenziale presente in Germani rivela, ad un attento esame, il desiderio inconscio di una pienezza lontana o perduta, la cui ricerca è continuamente assediata dalla resa e dal nulla, ma non del tutto estinta: potremmo considerarla intermittente, tra attesa e silenzio (si veda, al riguardo, il libro Luce del volto, edito da Campanotto nel 2002).
Voce interrotta è l’ultima, coerente tappa di un poeta che è stato definito “molto schivo”. Certo è che Mauro Germani (che – è bene ricordare – si occupa di poesia e di scrittura, anche a livello saggistico, da più di trent’anni) meriterebbe un’attenzione maggiore da parte non solo della critica ufficiale, ma anche da quella più giovane o militante, entrambe purtroppo invischiate in giochi assurdi di potere, di clientelismi e favoritismi. La poesia di Germani, a nostro avviso, dovrebbe essere approfondita proprio per la sua unicità, ovvero per una concezione della parola poetica che non ci sembra trovare molte analogie nella produzione italiana contemporanea.

Marco De Novis