mercoledì 18 gennaio 2017

giovedì 5 gennaio 2017

Thomas Bernhard - Perturbamento



Parlare di Perturbamento, lo straordinario romanzo che Bernhard pubblicò nel 1967, significa inevitabilmente precipitare nell’abisso di tenebre che è ogni personaggio, nella solitudine irrimediabile di cui è voce. Perché le opere di Bernhard sono soprattutto voci. Voci monologanti e disperate, voci che parlano nel buio e nel vuoto anche quando si rivolgono a un interlocutore, voci che non si placano, che ripetono e si ripetono di continuo, che sono la loro malattia e la loro fine incessantemente cercata. Ogni voce, infatti, vorrebbe finire, ma non riesce a staccarsi dal proprio delirio, perché le parole generano crudelmente altre parole, inutili e terribili a un tempo. Il silenzio è desiderato, ma la scrittura delle voci non è che l’incontro-scontro tra la vita e la morte, come il dibattersi di un corpo in preda a un’agonia interminabile.

C’è in Bernhard una furia delle parole che attesta la vanità e la potenza delle parole stesse, una coazione a ripetere che si fa sempre più malata e violenta in un processo mortale. Col divampare della furia, col fuoco inestinguibile delle parole pronunciate come in una catena maledetta e inarrestabile, l’inanità di ogni discorso non rivela che la propria tremenda volontà di autodistruzione, di essere cenere e poi nulla.

La vicenda di Perturbamento è un viaggio progressivo al culmine della malattia e della follia, attraverso le solitudini di personaggi chiusi nel loro mondo opprimente, nelle loro ossessioni e nei loro deliri. L’io narrante, un giovane studente di scienze minerarie, che accompagna il padre medico in una serie di visite tra le valli e le gole della Stiria a pazienti afflitti da diversi mali e tormentati tutti dall’atrocità dell’esistenza, non fa che riportare voci altrui,  in una sorta di  protocollo che è anche una discesa agli inferi, una testimonianza cruda della brutalità di quei luoghi isolati dove non ci può essere salvezza alcuna. Le visite dei pazienti introducono quella ultima del principe Saurau, che costituisce un capitolo a parte. Tutto alla fine converge nel delirio senza posa del principe, nel suo ininterrotto soliloquio, che è una vera e propria opera demolitrice della sua stirpe, generazione dopo generazione («scopro l’orrendo fetore delle generazioni», afferma), fino a coinvolgere l’intera storia dell’uomo e il nostro essere nel mondo, in una furia distruttiva e autodistruttiva di feroce potenza, che Bernhard esprime con una maestria davvero rara. I vari pazienti incontrati prima del principe (Bloch, l’ex maestra Ebenhoh, l’industriale, i Fochler,  Krainer) sono prigionieri di se stessi e dell’ambiente in cui vivono. Tra loro, vale la pena citare l’industriale, malato di diabete, che si è ritirato in un padiglione di caccia, assillato da un lavoro letterario che scrive e distrugge continuamente. Il suo isolamento volontario e la sua lontananza da ogni possibile distrazione («tutto per lui doveva essere vuoto il più possibile, il più possibile spoglio») per concentrarsi in un’opera imponente ma non ben definita e alla fine irrealizzabile rappresentano quella follia maniacale ed ossessiva tipica di molti personaggi di Bernhard.

Il principe Saurau non prende un attimo di respiro. Al medico e a suo figlio, che ascoltano quasi muti, il principe confessa la propria disperazione, espone con incontenibile frenesia verbale tutta la sua follia ragionata, il suo disprezzo per la famiglia («questa incessante e infame amputazione dello spirito») e per tutto. E’ continuamente tormentato da insopportabili rumori che sente nella sua testa, dove c’è «una devastazione inimmaginabile», e ciò che lo sgomenta «è che nessuno, neanche un solo cervello si sia mai accorto né si accorga mai di questi rumori». A turbare la sua esistenza c’è poi il rapporto, altrettanto devastante, con il figlio che vive a Londra, perché è convinto che dopo la sua morte distruggerà il castello di Hochgobernitz con tutte le proprietà.

A ben vedere la relazione padre-figlio costituisce un elemento importante nel romanzo, se si considera che anche il rapporto tra l’io narrante e il padre medico è contraddistinto da ambiguità e reticenze, così come è stato traumatizzante il rapporto tra il principe Saurau e suo padre, morto suicida. Padri e figli sono legati da follie e miserie diverse, ma che hanno anche inevitabilmente qualcosa in comune («Padre e figlio, guardandosi in faccia, si contemplano continuamente nella loro meschinità»). Il principe è solo nel suo dramma (e probabilmente lo è anche il figlio, di cui abbiamo informazioni unicamente grazie al discorso del padre), con tutte le manie e le fissazioni che reca con sé, come ad esempio il rifugiarsi in biblioteca perché lì il freddo si sopporta meglio che altrove, anche se  «in ogni libro scopriamo con orrore un uomo che gli stampatori hanno stampato a morte, che gli editori hanno pubblicato a morte, che i lettori hanno letto a morte». O ancora: «I libri mi hanno fatto sempre capire quanto io sia infelice, senza scrupoli, inaffidabile, vulnerabile, inutile». C’è nel principe – come egli stesso dichiara – una geometria del tormento, che lo sdoppia: «Sto in piedi davanti alla finestra e vedo me stesso nel cortile, sulle mura interne. Mi osservo. Mentre mi osservo, ora mi capisco ora non mi capisco».

Il romanzo non ha una conclusione vera e propria. Il soliloquio del principe improvvisamente si interrompe. Non sappiamo più niente, né se arriverà davvero il figlio del principe da Londra, né se il giovane narratore e suo padre finalmente si parleranno.

Bernhard ci offre una scrittura avvolta dalle tenebre, ci imprigiona nei meandri della follia che è dentro di noi e ci consegna con la figura del principe Saurau un personaggio estremo, che non è possibile dimenticare, uno di quegli esseri che continuano a vivere oltre la pagina scritta.

Mauro Germani





domenica 1 gennaio 2017

GABER E IL CORPO


In ricordo di Giorgio Gaber, scomparso il primo gennaio 2003.




Uno dei temi centrali dell’opera di Gaber è sicuramente quello relativo al corpo ed alla sua problematicità. Si potrebbe forse sostenere che costituisce  quasi una sorta di ossessione, data la ricorrenza assai frequente nei testi. I riferimenti alla corporeità, infatti, emergono a vari livelli, sia in modo diretto ed esplicito, sia nel linguaggio, in forma di similitudini, metafore ed allusioni. […]
L’enigma del corpo – la sua doppiezza, il suo essere per noi estraneo e familiare allo stesso tempo – è certo stato affrontato da Gaber in modo esemplare, ora con ironia, ora con amarezza, ora con rabbia, ora perfino con tragicità e disperazione. […]
In Gaber da un lato c’è la spinta verso l’interezza, il superamento della contrapposizione mente / corpo, la rivalutazione delle pulsioni più naturali e profonde rispetto al potere astratto della mente, dall’altro c’è la consapevolezza della propria fragilità, un senso di inadeguatezza perenne, la paura di “guardare in fondo alla propria faccia e di frugarsi dentro agli intestini” (La smorfia), o addirittura lo smarrimento ontologico, al limite della non-esistenza, come emerge dalla splendida Io e le cose. In questa canzone  troviamo tutto il mistero della realtà intorno a noi, del nostro rapporto col mondo esterno, con le cose che ci circondano e silenziosamente ci interrogano su ciò che significa esistere, come ad esempio “le carte coi tarocchi”, “gli eterni scacchi”, “e poi lo specchio rosso/su cui splende un’illusoria aurora”: versi che rimandano alla poesia di Borges Le cose, uno dei testi più importanti di Elogio dell’ombra, ma che in questo contesto assumono un altro significato.

Ad essere sincero io non so
se esistono le cose
non so se vanno male o bene
se tutto è un’illusione.
Ad essere sincero io non so nemmeno
se anche le persone
coi loro sentimenti e la ragione
esistono davvero.

Eppure, in questa contrapposizione al vuoto esistenziale appena descritto, nella strofa-ritornello si affaccia la possibilità dell’esistenza, di una pienezza reale, che forse può dare un rapporto d’amore e che viene sfiorata come un desiderio di appartenenza e di autenticità, rappresentato non a caso da due corpi che entrano in contatto.

Io non so niente
ma mi sembra che ogni cosa
nell’aria e nella luce
debba essere felice.
Io non so niente
ma mi sembra che due corpi
nel buio di una stanza
debba essere esistenza.

Il nostro essere nel mondo comporta una relazione incessante tra noi stessi e la realtà. L’esperienza dell’io è inevitabilmente anche esperienza del mondo. Come sottolinea Eugenio Borgna, “quando cambia la Stimmung (stato d’animo) che è in ciascuno di noi, contestualmente cambia anche la fisionomia del mondo: cambiano i modi con cui il mondo ci chiama e ci parla” (Eugenio Borgna, Come se finisse il mondo, Feltrinelli, Milano 2006, p. 62).
L’eclissi del mondo (il suo oscuramento o addirittura la sua sparizione), a cui fanno riferimento i versi iniziali della canzone, sembra poi essere superata grazie all’esperienza del corpo, del contatto reciproco fra i corpi, che dovrebbe garantire la pienezza dell’esistenza.

da Mauro Germani, Giorgio Gaber. Il teatro del pensiero, Zona, Arezzo 2013