sabato 21 maggio 2016

"Le case dei venti contrari" di Lia Maselli


Dire l’indicibile
Le case dei venti contrari di Lia Maselli
Formebrevi Edizioni, 2016

Ma come si può raccontare quello che non si saprà mai?
Questa domanda, che si trova poco oltre la metà del libro, risulta assai importante per avvicinare non solo la particolare scrittura di Lia Maselli e la storia che viene narrata, ma anche perché fa emergere una serie di questioni intorno all’atto dello scrivere che non sono certo da sottovalutare.
A ben vedere, ogni scrittura nasce proprio da ciò che non si sa, si sviluppa intorno a qualcosa che manca, che si ignora. E lo scopo non è tanto quello di colmare questa lacuna, quanto di renderla visibile e concreta, di farla diventare protagonista, una sorta di centro abissale ai bordi del quale ruota tutto. Del resto, a che scopo raccontare ciò che si presume di sapere già? Siamo proprio sicuri di conoscere veramente ciò che intendiamo raccontare? Il momento della narrazione, del dire non è forse sempre e solo una parte, un residuo, uno scarto, rispetto a quanto ci preme e sentiamo dentro di noi? Non è in qualche modo uno strano e misterioso teatro di parole sofferte e insieme distanti che si apre sulla pagina, che ci viene incontro ogni volta che ci apprestiamo alla lettura? E dov’è mai l’autore dei segni che catturano il nostro sguardo e la nostra mente? Dov’ è sparito? E addirittura: c’è mai stato veramente?
Tutti questi interrogativi, che accrescono indubbiamente il fascino della scrittura (e che sono stati oggetto di studio da parte di Maurice Blanchot), si possono ritrovare tra le pieghe del libro di Lia Maselli, in quanto agiscono in modo sotterraneo, come piccole scosse telluriche al di sotto delle parole e della vicenda stessa, lasciando intuire o intravedere le fratture, le crepe di un abisso segreto e profondo.
Le case dei venti contrari si pone come un romanzo anomalo, che – pur raccontando una storia e conservando quindi una dimensione narrativa -  procede per frammenti ed associazioni che fanno pensare alla poesia.  Qui fabula ed intreccio non coincidono, la linearità della narrazione è continuamente spezzata e frequenti sono i salti spazio-temporali e gli squarci poetici e visionari che conferiscono alla narrazione una sospensione tragica, tra dissolvenze di luce e di buio.
Al centro della storia narrata c’è Aurora con la sua solitudine ed i suoi fantasmi che l’accompagnano: l’ombra del figlio mai nato, poi la scoperta drammatica di un tradimento protratto nel tempo e confessato poco prima di una rinascita forse possibile, ma stroncata da un evento irreparabile. Aurora vuole capire ciò che le è accaduto e per questo interroga i vuoti, le mancanze di senso, “guarda da un punto dove la trama ha ceduto” ed entra così nella zona oscura della propria esistenza, evoca  figure, momenti, parole e sogni che affiorano sia dalla memoria lontana, sia da quella recente.
Ecco allora che tornano le case di un tempo, a cui si avvicina per spiare come faceva da bambina il mondo racchiuso in quelle stanze, scoprirne un’altra verità, le tracce degli anni, i vuoti, i misteri e quei venti contrari che hanno soffiato  sul suo destino.
Sono case dai nomi suggestivi: la casa delle ancore, la casa gatto, la casa scuola, la casa delle rose doppie, la casa dei venti, la casa teatro, per citarne alcune.
Case diverse che sono come apparizioni nelle pagine del libro, avvolte in un’atmosfera tra realtà ed immaginazione, dove ciò che accade  è insieme ricordo e rinnovato stupore, sogno ad occhi aperti, esplorazione di quanto sedimentato nella dimensione inconscia dell’esistenza.
Case-mondi, case che hanno segnato la vita della protagonista, case di una topografia interiore, che vuole essere compresa. Case in bilico – potremmo dire - come in bilico è sempre Aurora, tra i venti forti e contrari del passato e quelli alterni del presente, tra gli eventi irreparabili della propria esistenza e la volontà di scoprire e raccontare cosa nascondono per recuperare i pezzi mancanti: “Guarda, spia, la bambina che ascolta dietro la tenda i discorsi dei grandi. Quella che ha perso qualcosa ed ora è tornata a riprenderselo” (La casa gatto, p.27).
Sono queste pagine molto belle, nelle quali Lia Maselli offre forse il meglio della sua scrittura essenziale e stratificata, secca, ma allo stesso tempo sospesa attorno ad un vuoto, concentrata e concentrica, percorsa anche da lampi visionari. Ciò è particolarmente ravvisabile in certi brani molto brevi, simili a prose poetiche, che sono momenti onirici molto intensi, nei quali si condensano domande e pulsioni in una dimensione spazio temporale che spesso comprende ed associa passato e presente.
Occorre poi aggiungere che la vicenda di Aurora non è isolata, perché attraversata da altre vicende, da simmetrie che sembrano rendere ancor più precaria l’identità della protagonista. L’indagine sul passato lontano e familiare apre infatti altri labirinti ed altri enigmi, gettando una luce ancor più inquietante sulla storia.
La seconda sezione del libro, intitolata La memoria, racconta in una dimensione più storica, un’altra Aurora, che nei primi anni del Novecento, muore di spagnola a soli trentasei anni, lasciando nove figli più il decimo che si spegnerà con lei. Tra i figli Emma, che resta orfana a soli dodici anni, e che sarà destinata a diventare una figura importante per la protagonista. E’ – come si dice a p. 59 – “un filo che scivola lento da Aurora a Emma, da Emma ad Aurora”.
Tutto sembra doppio, se non addirittura multiplo in questo libro, perché la scrittura è sempre l’altra realtà, la rappresentazione che l’atto creativo mette in scena.
Non solo il nome di Aurora è doppio, ma doppio è anche il punto di vista del racconto, nel quale si alterna la terza persona alla prima. Ciò che si narra è spiato e vissuto al tempo stesso.
Lia Maselli scrive e si vede scrivere, racconta ed è raccontata. Il teatro della vita e il teatro della scrittura s’intrecciano e si separano in continuazione, oscillano ai bordi di una domanda senza risposta, di una vertigine, di ciò che non è dato sapere.
L’immagine del teatro, anzi dei teatri, ricorre spessissimo nel libro e si configura non solo come dispositivo narrativo, ma svolge anche una funzione catalizzatrice di quanto attiene all’esistenza, al rapporto io- mondo e a quello tra sogno e realtà.
Un teatro è la casa sottratta alla fisica”, si dice nel libro. Infatti è una sorta di luogo magico che consente l’evocazione del passato, dove si è protagonisti e spettatori al tempo stesso, ma anche molto di più: è il mondo che si spia fin dall’infanzia, lo spazio intimo in cui si provano le parti o ci si ribella per conquistare una propria autonomia, lo scenario in cui rappresentare le proprie scelte ed i propri sentimenti e fare i conti con essi.
Soprattutto qui  vivono i personaggi di questo libro. Escono simili a fantasmi dai fondali oscuri di un teatro interiore dove tutto è già avvenuto, e dicono la loro storia come in attesa di una rivelazione improvvisa , davanti a chi li guarda e li ascolta: noi lettori, certo, ma anche la protagonista e con lei chi scrive.
Tutto avviene intorno ad un buco nero – come si diceva all’inizio – tutta la rappresentazione teatrale va in scena perché c’è una mancanza, un vuoto. C’è una morte repentina che ha interrotto ogni comunicazione, che ha creato un silenzio come un muro invalicabile, che ha cancellato ogni possibilità di dialogo. E’ per questo che Aurora chiama a sé, nel suo teatro, chi non c’è più: per sentirlo parlare con un’altra voce, quella perduta per sempre e che forse potrebbe finalmente dire la verità, dopo le menzogne, le contraddizioni, i silenzi, le promesse del passato:“Perché continua a pensare ai morti? Perché sono le loro parole che ritornano asciutte nell’aria che si muove allo sbattere di una porta sul retro. Aspetta ancora una sua risposta, che sia univoca, che non muti e non si ossidi al contatto. Vuole che lui metta a segno il colpo, prenda la mira sul tempo e colpisca con tutta la forza che ora può” (p. 71).
Il dramma di Aurora è anche questa imprevedibilità del passato, che tra l’altro si fonde bene con la scrittura di Lia Maselli, in quanto quest’ultima sorprende nel suo continuo movimento tra ciò che rivela e ciò che sottende, aprendo – come abbiamo già evidenziato -  stratificazioni, cerchi concentrici o addirittura gorghi abissali, proprio come può avvenire in un testo poetico, pur mantenendo una dimensione narrativa.
Verso la parte finale del romanzo, poco prima dell’ultima sezione, c’è un brano intitolato Il libro, che risulta particolarmente significativo. Qui Lia Maselli sembra svelare le carte  a proposito della sua opera, del suo doppio e del suo teatro. Scrive: “Il libro e il figlio sono i fratelli gemelli delle notti insonni”. E poi: “Mi dicevano pensa il racconto come un corpo. Rispetta le proporzioni. Un inizio e una fine ben congegnati. Ma non parlavano mai del tempo. Della lunga incubazioni di lettere. A volte le proporzioni saltano. Mutazioni improvvise. E quando le attese si interrompono, nel silenzio delle creature che nuotano in limbi immaginari, il libro e il figlio diventano una cosa sola. Un’idea. Una ferita sul mondo”.
Ecco, le proporzioni saltano, perché non ci sono giuste proporzioni nella vita. E nulla è così certo, nemmeno ciò che si è vissuto. I sogni del tempo presente dicono lo smarrimento, ogni ritorno alle origini può essere un girare a vuoto o un allontanamento. Le prospettive mutano.
Tornare dentro i fatti è pericoloso”, si afferma nel libro. Perché? Certamente perché significa mettersi in discussione, guardare criticamente verso ciò che abbiamo fatto e ciò che siamo stati. Significa anche sperimentare nuovi punti di osservazione, scoprire dettagli prima trascurati o ignorati, mutare prospettiva di indagine. Può voler dire inoltre avere dei dubbi, delle perplessità non tanto su ciò che è accaduto, quanto su noi stessi nel momento in cui quel qualcosa è accaduto.
Chi eravamo davvero in quel momento? Che cosa siamo stati?
Il passato allora sfuma, certi particolari possono assumere a volte dimensioni inaspettate. Se il presente dipende dal passato, è anche vero che il passato può dipendere dal presente, perché il tempo è fluido e cambia in rapporto all'esistenza.
Viene in mente ciò che Minkowski, nei suoi studi di psicologia fenomenologica, chiama il tempo vissuto. E' proprio dentro il tempo vissuto che scava la protagonista, è proprio da lì, da quel magma interiore che scaturiscono le sue parole e le sue domande. E' proprio questa zona d'ombra che c'è in noi e nella realtà che contraddistingue il modo d'essere non solo di Aurora, ma anche dell'autrice, la quale a volte la osserva e a volte la vive, in uno scambio continuo, come in un gioco di specchi senza interruzione.
I fantasmi del passato si muovono, arrivano fino al presente con i loro enigmi, ed il presente a sua volta li investe con la sua ansia e la sua inquietudine altrettanto enigmatiche.
Ogni presenza evocata è un'ombra dentro un'ombra più vasta.
Nelle Lettere a un giovane poeta, Rilke scrive:" La maggior parte degli avvenimenti sono indicibili, si compiono in uno spazio che mai parola ha varcato, e più indicibili di tutto sono le opere d'arte, misteriose esistenze, la cui vita, accanto alla nostra che svanisce, perdura". Scrivere, per Rilke, significava stare in ascolto, incontrare il mistero dell'Altro, in un atteggiamento che è stato definito di ardua passività attiva. La scrittura nasce proprio dall'indicibile che è l'esistenza e la parola incarna dunque questa tensione di dire l'indicibile, si situa in questo margine mobile, sfuggente, enigmatico.
Che cosa può allora la parola rispetto a quanto accade dentro di noi, che cosa può rispetto all'esistenza? Questa è la domanda che sta a fondamento di ogni scrittura.
Aurora interroga il tempo passato, ne evoca le presenze, i luoghi, ma contemporaneamente ne avverte l'instabilità, quasi  l'evanescenza. Ogni volta che torna dentro i fatti, sente come un pericolo, apre un teatro d'ombre che è insieme mistero e ferita.
C'è molto passato in questo libro, ma non c'è caduta in un tempo solo, non c'è chiusura, la temporalità non è spezzata perché comunque c'è un tempo presente, una continuità, il teatro interiore di Aurora, il suo sdoppiamento. Senza questa importante dimensione, la storia sarebbe chiusa in se stessa. Invece c'è una grande tensione che nasce da una scrittura che giustamente in un libro come questo non può essere né immediata, né convenzionale. Qui la parola si carica di valenze ulteriori, non vuole semplicemente narrare una storia, ma avvicinare il più possibile la sua zona d'ombra, il suo punto indicibile, in quanto lì è la sua ragione, perché - come sosteneva Edmond Jabès - "dove non c'è rischio, non c'è scrittura".
Nelle ultime pagine un viaggio attraversa gallerie che bucano il tempo, specchi riflettono volti e storie che trascorrono come ombre smarrite. I personaggi compaiono nel loro enigma. Chi sono? Chi è stata Aurora in questa storia? E che cosa comunica Emma con la sua volpe intorno al collo e il suo sguardo trasparente?
Non c'è, non ci può essere una risposta, o almeno una risposta sola.
Questo è un romanzo di interrogativi, di sdoppiamenti, di proiezioni.
La sua verità è nella domanda.

Mauro Germani