venerdì 25 novembre 2016

Sexus et Politica - canzoni di Virgilio Savona scritte su testi di autori latini eseguite da Giorgio Gaber



Sexus et Politica è un album del febbraio 1970, che raccoglie dodici canzoni scritte da Virgilio Savona su testi di autori latini vissuti nel periodo che va all’incirca dalle guerre contro Cartagine fino al 180 dopo Cristo.
Questo disco, che merita assolutamente di essere riscoperto, si colloca tra il primo Gaber, “televisivo” e di successo, e quello maturo che darà poi vita, insieme a Sandro Luporini, ad uno straordinario percorso artistico che durerà un trentennio e che comprenderà non solo il Teatro Canzone, ma anche il cosiddetto Teatro di Evocazione, di sola prosa.
La voce di Gaber si trova qui in perfetta sintonia con i testi e le musiche di Virgilio Savona, anima del “Quartetto Cetra”, dotato di formidabile mimica all’interno del gruppo, e artista dalla “doppia vita”, in quanto autore in proprio di canzoni controcorrente, che pochi conoscono, contrassegnate da una forte polemica sociale e politica. 
Il Premio Tenco ha così ricordato Virgilio Savona:
 "…All’interno del Quartetto Cetra Virgilio Savona rivoluzionò la canzone italiana fin dagli anni ’40, con l’uso dello swing e dell’ironia. Compositore raffinato e brillante tanto per piglio ritmico quanto per felice vena melodica, realizzò come autore e come interprete una sterminata produzione discografica, innalzò la canzone per l’infanzia a vette di intelligenza mai sperimentate prima, portò alle massime conseguenze lo strumento della parodia, fu protagonista di una televisione di qualità’, oggi impensabile. Da metà anni ’60 la sua produzione comincia a contemplare delle canzoni di più forte impegno civile, e nel 1969, lavorando anche al di fuori del Quartetto Cetra, una svolta netta lo proietta tra i protagonisti della nostra “canzone d’autore”: scrive, canta o produce dischi molto polemici nei confronti della società contemporanea, soprattutto in chiave pacifista; dirige in questo senso la storica collana I Dischi dello Zodiaco; adatta e musica testi di autori latini affidandoli a Giorgio Gaber col titolo “Sexus et politica”; pubblica, per lo più con Michele L.Straniero, una quindicina di volumi intorno ai patrimoni della tradizione popolare.Virgilio Savona non ha tralasciato niente nel suo cammino, dalla più immediata canzonetta divertente all’estrema invettiva politica, dallo scherzo autoironico al cabaret intellettuale, dal jazz al folk. Nelle sue canzoni sono custodite le nostre memorie, il nostro costume, i nostri modelli culturali, tracce di letteratura, cinema, televisione, sport. Mezzo secolo di musica e’ passata attraverso di lui. La cultura italiana non potrà mai dimenticarlo”.
Nell'album Sexus et Politica l’incontro Savona-Gaber risulta assai felice. Non a caso, poi, le strumentazioni sono a cura di Giorgio Casellato, che di lì a poco si sarebbe occupato degli arrangiamenti di molti spettacoli di Gaber, fin dal primo, Il signor G.
L’operazione di proporre in chiave musicale e moderna brani di autori latini è indubbiamente originale ed interessante ed è condotta da Virgilio Savona con grande scrupolo e serietà, tanto che l’album è corredato da una serie di note esplicative riguardanti i testi e gli autori, nonché da una bibliografia specifica. In uno scritto introduttivo, si precisa che “ogni singolo testo corrisponde a un breve passo tratto da un lavoro letterario di ben più vaste dimensioni”, tuttavia intende riassumere con una certa compiutezza l’argomento affrontato dall’autore.
Il lavoro di Savona non è stato certo semplice, anche perché non ha riguardato solo la traduzione dei brani, ma anche il loro adattamento alla canzone: ad esempio, le frequenti ripetizioni di alcuni capoversi non sono presenti nei testi latini, ma qui si sono rese necessarie per la “forma canzone”.
La composizione delle musiche, poi, non ha potuto tenere conto delle melodie dell’antica Roma, in quanto non abbiamo informazioni al riguardo e – tra l’altro - per molto tempo i citaredi furono disprezzati. Sempre nel testo introduttivo dell’album, si afferma che la musica delle canzoni è opera di pura fantasia e “ricorda, sia pure in chiave attuale, i canti trobadorici” con “impasti sonori ed effetti timbrici duecenteschi”.
Tra gli autori scelti troviamo, tra gli altri, Quinto Orazio Flacco, Publio Ovidio Nasone, Decimo Giunio Giovenale, Sesto Properzio.
Occorre dire che il titolo dell’album, Sexus et Politica, risulta un po’ riduttivo, se non addirittura fuorviante. Questi due temi sono certamente presenti, ma il primo non è così centrale ed è rinvenibile solo in due brani di Ovidio (Corinna e Donne credetemi). Ciò che invece domina nella maggior parte delle canzoni è un senso profondo di caducità e di morte (si veda il pezzo che apre l’album, La pallida morte, e quello che lo conclude, E’ inutile piangere), insieme alla consapevolezza della precarietà della condizione umana, della meschinità del potere, della tragica assurdità della guerra e delle disuguaglianze presenti nella società. L’attualità dei brani scelti deriva proprio dall’intreccio indissolubile tra tematiche esistenziali e sociali, che peraltro sarà sempre presente in tutti gli spettacoli di Gaber.
Mauro Germani






mercoledì 26 ottobre 2016

Louis-Ferdinand Céline - Voyage au bout de la nuit



Pubblicato nel 1932, Voyage au bout de la nuit, primo romanzo di Louis-Ferdinand Céline, è indubbiamente uno dei maggiori libri del Novecento.
Il protagonista Ferdinand Bardamu si muove all’interno di una realtà che si dà a frammenti, spesso crudeli e violenti, qualcosa che sembra avere smarrito da sempre il proprio senso, la propria giustificazione. Sono lampi di gratuità nella notte, destini solitari e dannazioni ai margini dell’abisso, gesti, parole, incontri, illusioni, addii, inizialmente dentro la prima guerra mondiale, poi nella deriva dell’Africa coloniale, nel capitalismo già feroce e alienante dell’America del primo dopoguerra e infine nei sobborghi di una Francia “malata” e povera.
Ferdinand passa da un evento all’altro, da un incontro all’altro senza capire, sempre in fuga da se stesso e dagli altri, vero e proprio antieroe, lacerato dalla paura di vivere, ossessionato come Céline dalla fisicità dell’esistenza, dalla materia organica, dalla carne degli uomini e del mondo. E la scrittura stessa, volutamente bassa e “sporca” ma mai casuale (Céline lavorava sulla parola come pochi) pulsa sulla pagina, diviene anch’essa materia vivente, anzi materia nella materia, penetra gli anfratti dei luoghi, ne assorbe gli odori e ne ricerca le ombre, entra nelle viscere della gente, svelandone le bassezze, le ipocrisie, le illusioni, gli egoismi senza rimedio.
Tutti i personaggi del romanzo sono corpi gettati dentro il corpo buio e disgregato della realtà, inghiottiti nel suo ventre oscuro, precipitati nella vita che li stordisce e li costringe a difendere con più o meno tenacia i propri sogni e le proprie miserie.
Nessuno di loro si salva, nessuno può essere salvato in questo gioco sporco e beffardo, in questo continuo ricatto a cui li sottopone il destino. Ognuno è solo e l’amicizia e l’amore non fanno che denunciare la loro pochezza o addirittura la loro impossibilità (“L’amore è l’infinito messo alla portata dei cani”), la solitudine disperata dell’uomo.
Ecco allora  il rapporto del protagonista con Molly, dolce e gentile prostituta americana (e a ben vedere forse l’unico personaggio davvero positivo del libro) e con Leone Robinson, sventurato compagno di fughe, una sorta di alter ego di Ferdinand, destinato ad una morte violenta in uno dei momenti più intensi del romanzo. Perché, in fondo, è proprio la morte che incombe su tutta la storia, come un incubo da cui si cerca di scappare o a cui si corre involontariamente incontro.

(da Mauro Germani, Margini della parola. Note di lettura su autori classici e contemporanei, La Vita Felice 2014)


***

La guerra insomma era tutto quello che non si capiva.

Tutto ciò ch’è interessante succede nell’ombra, certamente. Non si sa nulla della vera storia degli uomini.

Ve lo dico, o buona gente, imbecilli della vita, battuti, sfruttati, vi avverto, quando i grandi di questo mondo si mettono ad amarvi, gli è che vogliono trasformarvi in salami da battaglia… 

Nei riguardi di una ragazza del luogo, Molly, provai presto un eccezionale sentimento di confidenza che, negli esseri umani, tiene il posto dell’amore.

Ritornavamo verso la folla e io poi la lasciavo dinanzi a casa sua, perché di notte lei era occupata con la sua clientela sino al mattino. Mentre lei era con i clienti, sentivo un senso di pena, e quella pena mi parlava di lei così bene che la sentivo meglio ancora che nella realtà.

Lo spirito s’accontenta con delle frasi, il corpo non è così, è più difficile lui, gli occorrono dei muscoli. E’ qualcosa di sempre vero un corpo, è per questo che l’è quasi sempre triste e disgustoso da vedere.

Non c’è da farsi illusioni, le persone non hanno nulla da dirsi, si parlano soltanto delle loro pene, ognuno le sue, inteso. Ognuno per sé, la terra per tutti. Cercano di scaricarsi della loro pena, l’uno sull’altro, nel momento dell’amore, ma non ci si riesce, e hanno un bel da fare, la conservano tutta intera la loro pena, e ricominciano e cercano ancora una volta di collocarla altrove.

Di terribile in noi e sulla terra e in cielo forse c’è soltanto quello che ancora non è stato detto. Non si sarà tranquilli se non quando tutto sarà stato detto, una volta per sempre, allora finalmente si farà silenzio e non si avrà paura di star zitti. Sarà così.

Ondate incessanti di esseri inutili vengono dal fondo delle età a morire continuamente dinanzi a noi, eppure si rimane là a sperare tante cose… Incapaci di pensare a quella morte che noi stessi si è.

Questo nostro corpo, travestito con molecole agitate e banali, si rivolta continuamente contro questo scherzo atroce del durare. Vogliono andarsi a perdere le nostre molecole, al più presto, nell’universo quelle vezzose! Soffrono d’essere solamente “noi”, cornuti dell’infinito. Si scoppierebbe se s’avesse del coraggio, invece ci si disgrega solo da un giorno all’altro. La nostra tortura preferita è rinchiusa lì, atomica, nella nostra pelle stessa, col nostro orgoglio.

E’ questa la vita, un po’ di luce che finisce nella notte.

Ci si poteva ancora domandare quel che avrebbe fatto per finirla. Il ventre gli si gonfiava. Ci guardava Leone, già fissamente, gemeva, ma non troppo. Era come una specie di calma. L’avevo già visto molto malato, io, e in punti differenti, ma questa volta era una cosa in cui tutto era nuovo, i sospiri, gli occhi e tutto. Non si poteva più trattenerlo, e se ne andava di minuto in minuto. Sudava gocce così  grosse che pareva piangesse con tutta la faccia. In quei momenti, è seccante essere diventati poveri e duri come si è. Si manca di quasi tutto quel che occorre per aiutare qualcuno a morire.

Lontano, un rimorchiatore ha fischiato; il suo appello ha passato il ponte, ancora un’arcata, un’altra, la chiusa, un altro ponte, lontano, più lontano… Chiamava a sé tutti i barconi del fiume, e la città intera, e il cielo e le campagne, e noi e tutto trascinava, anche la Senna, tutto, e che non se ne parli più.


da Viaggio al termine della notte - Traduzione di Alex Alexis (Luigi Alessi)




martedì 23 agosto 2016

Mario Bonanno: nota di lettura su "Voce interrotta"



Segnalo con piacere questa nota di lettura di Mario Bonanno relativa al mio libro Voce interrotta, apparsa sul sito "Classifica Libri"  qui

lunedì 11 luglio 2016

Giovanni Ramella Bagneri - Armageddon e dintorni






Giovanni Ramella Bagneri, Armageddon e dintorni. Poesie edite e inedite (a cura di Gilberto Isella e Tiziano Salari), Insula 2011


Giovanni Ramella Bagneri (1929-2008) è stato un autore troppo anomalo per la nostra poesia contemporanea. Ne è la prova l'insolito destino editoriale delle sue opere. Dopo la pubblicazione di un volume da Guanda (Muro della notte, 1978), l'inserimento nell'Antologia Poesia degli anni Settanta a cura di Antonio Porta (Feltrinelli, 1979) e l'uscita presso Mondadori di Autoritratto con gallo (1981), solo piccoli editori (tra cui soprattutto  la Forum del compianto Giampalo Piccari, della quale prima o poi bisognerebbe parlare, ricordando il catalogo ricco di nomi considerevoli, nonché la capillare ricognizione poetica effettuata dai volumi regionali) si sono interessati alla sua poesia. Senza contare che dal 1988 fino alla sua scomparsa non sono apparse pubblicazioni, anche se Ramella Bagneri ha continuato a scrivere, nella sua solitudine. E occorre ricordare anche l'intensa attività di critico di poesia sulle pagine della rivista "Uomini e libri" diretta da Mario Miccinesi tra gli anni Settanta e Ottanta.
Risulta quindi particolarmente degna di attenzione l'uscita di questo volume, Armageddon e dintorni. Poesie edite e inedite, a cura di Gilberto Isella e Tiziano Salari, che firmano due eccellenti saggi sull'opera di Giovanni Ramella Bagneri. Un'opera - si diceva - anomala, ma anche magmatica, ciclica, visionaria, ultima. Ciò che colpisce è l'inesauribile potenza immaginativa dei versi, la loro valenza allegorica in uno scenario in cui l'irreparabile è ormai avvenuto e non può esserci più alcuna redenzione. Come afferma Salari "l'uomo è già finito. La rappresentazione ha inizio nel lutto della sua scomparsa" e la modernità è da intendersi come "epica finale". La conseguenza è la maschera, la perdita di ogni realtà autentica, lo sdoppiamento tra il linguaggio e le cose:" Io non so dove esistano le cose / [...] io non so dove esistano eppure le chiamo, le chiamo" (Bambina nel cortile). La Parola non c'è, ci sono solo fantasmi di parole, "Anche il Libro, l'universo / del Libro, il suo formidabile enigma, / come noi, come tutto / qui si sgretola, frana". Giovanni Ramella Bagneri non teme di usare  un lessico semplice, molto diretto, tuttavia l'urgenza visionaria ed apocalittica riesce spesso ad incidere in modo assai efficace nella costruzione e nel ritmo dei testi. Tutto sa di ultima voce, una voce orfana, che ritorna, che non si spegne mai del tutto, che è costretta a ripetere il proprio lutto, la propria deriva da un'origine ormai perduta.
La storia è avvolta dalle tenebre, il suo sviluppo non è lineare e restano soltanto macerie che sono parvenze, come in un teatrino crudele che prolunga incessantemente il proprio non senso e la propria agonia: ciò che Salari chiama efficacemente la "carnevalizzazione della Modernità", nella quale l'orrore trova espressione nel suo capovolgimento estremo. E Gilberto Isella sottolinea come nella rappresentazione di Ramella Bagneri "tempo, spazio e racconto investono le grandi narrazioni mitiche classiche e cristiane, dalla cacciata dell'Eden in avanti, per poi riversarsi sulle brutali devastazioni del mondo contemporaneo". Tra l'altro, Isella rileva alcune interessanti affinità col grande poeta bosniaco Nikola Sop, autore di Mentre i cosmi appassiscono. Tali affinità - precisa - non riguardano "l'afflato mistico 'esplicito' " di Sop, ma "la presenza di un poeta-testimone catapultato nell'enigma cosmico e impotente a decifrarlo". Ecco dunque il carattere spettrale dell'opera di Ramella Bagneri, in cui l'io poetante sparisce, diviene invisibile ed ascolta  - come afferma ancora Gilberto Isella - "voci che fuoriescono da un'eterna notte, da un coro di morti, come succede nel celebre dialogo leopardiano Federico Ruysch e le sue mummie".

da Mauro Germani, Margini della parola. Note di lettura su autori classici e contemporanei, La Vita Felice 2014

venerdì 8 luglio 2016

"I miei premi" di Thomas Bernhard, alcune considerazioni sulla nostra società letteraria e una provocazione



Thomas Bernhard, I miei premi, Adelphi 2009

Da I miei premi di Thomas Bernhard, una lezione di stile e di sincerità.
Leggendo il libro, non si può non pensare alla natura della nostra società letteraria e ai suoi rappresentanti, agli autori che ne fanno parte o che gravitano attorno ad essa, agli editori che controllano il mercato delle pubblicazioni e delle recensioni, ai premi e ai riconoscimenti di maggior prestigio che spesso vengono spartiti tra i grandi gruppi editoriali e assegnati agli autori “amici”. Basta infatti dare uno sguardo alle giurie dei principali premi di poesia per notare che figurano spesso gli stessi nomi.
Bernhard parla del suo tempo, certo, e delle sue esperienze col suo inconfondibile sarcasmo e mette in luce tutta la miserabilità di  quel mondo, che  poi – a ben vedere - non è così diverso dal nostro, dominato com’è dall’arrivismo e dall’ipocrisia di certi personaggi, sempre più collusi col potere politico-editoriale, oppure devastati da un folle e patetico narcisismo.
Che dire, poi, dei vari gruppi, delle conventicole, dei circoli letterari, delle associazioni, dei festival, dell’insopportabile alterigia dei cosiddetti “puri”, dell’arroganza degli intellettuali o pseudo tali,  abilissimi nel seguire le mode culturali del momento, oppure della pochezza dei poetucoli o dei poetastri privi di personalità, baciapile, portaborse, plagiatori patentati dei poeti affermati, o ancora dei tanti poveri illusi e malati che si credono chissà chi e sperano che apparire continuamente su facebook li faccia esistere e li porti miracolosamente ad essere riconosciuti per il loro presunto valore? Tutta gente destinata a sparire, a sprofondare nel nulla, insieme ai loro innumerevoli libri, che andranno giustamente al macero. Siamo soffocati da pubblicazioni, eventi, letture, che soddisfano solo l’insulso e spudorato narcisismo dei vari personaggi che si mettono in mostra, capaci di andare ovunque pur di apparire, in uno spettacolo indegno dove ognuno recita la propria parte e non ha il minimo reale interesse verso gli altri. Restano montagne e montagne di libri, di orribili trofei, targhe, diplomi, attestati, che starebbero bene solo in un’enorme discarica.
Come non riflettere, allora, sulla deriva della nostra società, sulla mancanza di rigore da parte di tutti, sul patetico teatrino della cultura esibita nelle varie manifestazioni, oppure – all’opposto - chiusa in se stessa, come fosse appannaggio di una setta?
Come non fare un bell’esame di coscienza e dire finalmente come stanno le cose?
Nessuno, oggi, è esente da responsabilità, più o meno gravi.
Bisognerebbe davvero cominciare ad azzerare i premi e fare un po’ di pulizia anche nelle case editrici, nelle riviste, nei giornali, persino in alcuni blog, e denunciare tutto ciò che non va, gli intrallazzi, i ricatti, le pressioni, le richieste di favori in cambio di favori, riscoprire per un po’ il silenzio e  pubblicare di meno. Ma forse è già troppo tardi ed è impossibile arrestare un ingranaggio in moto da troppo tempo.
Io, personalmente, dopo più di trent’anni di scrittura e diverse pubblicazioni – nonché, ahimè, la partecipazione ad alcuni premi - mi fermo qui.

Ecco alcune frasi tratte da I miei premi, che meritano di essere citate:

“Credetti di dover morire soffocato dall’equivoco che la letteratura fosse la mia salvezza. Non volevo più saperne della letteratura. Non mi aveva reso felice, bensì buttato dentro quella fossa soffocante e fetida dalla quale non c’è più scampo…”

“Della letteratura non volevo più saperne, io le avevo dato in pasto tutto quello che possedevo e in cambio mi aveva buttato dentro quella fossa. Mi nauseava, la letteratura, odiavo tutti gli editori e tutte le case editrici e tutti i libri.”

“Sul palco mi porsero l’attestato del premio, di cui oggi non ricordo più che aspetto avesse, non lo posseggo più come non posseggo nemmeno tutti gli altri attestati dei premi ricevuti…”

“Sì, dicevo io, ogni anno vengono cooptati nuovi coglioni in quel Senato che si definisce Senato dell’Arte e nel nostro Stato rappresenta un male inestirpabile e una perversa assurdità. E’ un consesso delle peggiori schiappe, un’assemblea di canaglie, dicevo ogni volta.”

“Ma i premi non sono affatto un onore, aggiungevo, gli onori sono soltanto cattiverie, non esistono onori sulla faccia della terra. La gente parla di onori e invece sono solo affronti, di qualsiasi onore si stia parlando, dicevo.”

“…le teorie letterarie sono rimaste per tutta la mia vita la cosa che ho odiato di più, e più di ogni altra le cosiddette teorie del romanzo…”

“…odiavo da sempre circoli e associazioni e più di tutto, com’è naturale, odiavo le associazioni letterarie… Partiti e associazioni non si addicevano e non si addicono alla mia mentalità.”

“Disprezzavo coloro che distribuivano  premi, ma non respingevo in maniera tassativa quei premi. Tutto era repellente, ma più repellente di tutto trovavo me stesso… Oggi per me la questione, semplicemente, non si pone più, la sola risposta è non lasciarsi più onorare.”
Mauro Germani








martedì 5 luglio 2016

Georges Bataille - Madame Edwarda



Georges Bataille, Madame Edwarda, ES 2004

Opera scandalosa ed estrema, come tutte quelle di Bataille, Madame Edwarda (1941) pone il lettore di fronte ad una realtà senza scampo, unica ed abissale, dove l'esperienza della carne e del desiderio è anche e soprattutto esperienza della vertigine e dell'annullamento di sé, epifania del vuoto e della morte.
In questo racconto, che Blanchot non esitò a definire il più bello tra quelli dell'autore, Bataille penetra nel cuore della contraddizione e della gratuità dell'esistenza, laddove l'infimo e il sublime si cercano in una tensione ai limiti dell'umano. L'indecenza e/o l'oscenità qui s'impongono nel segno di una scrittura che vuole andare oltre se stessa, divenendo la cifra concreta di una conoscenza che non è e non sarà mai parola ma gesto scavato nel vuoto.
La centralità dell'erotismo è in Bataille apertura verso l'impossibile, offerta verso il destino ultimo della carne, la precarietà del suo assoluto. Come ha scritto Roberto Carifi, la ricerca dell'ignoto avviene in Bataille "in un fuori che è dentro il reale e che in esso si svela attraverso un viaggio che osa tentare i confini del culmine". Ecco dunque l'incontro con Madame Edwarda, prostituta che, tenendo una gamba divaricata e tirando la pelle con le mani, mostra i suoi "stracci" affermando di essere Dio. E' la nudità sovrana, l'esperienza limite, lo sprofondamento nel non-sapere, l'eccesso che esige l'estasi negativa, l'esposizione al nulla, perché Bataille intende realizzare una sovranità del soggetto non asservita all'utile e dunque concepita come perdita, spossessamento di sé.
Madame Edwarda non mente, è Dio, carne e vuoto insieme, attrazione e "piovra ripugnante", allegria e angoscia, assenza e presenza. I suoi tacchi fanno rumore sul pavimento, ma nello stesso tempo procede tra le nuvole. I suoi passi sono gravi, la morte stessa sembra essere lì, "poiché la nudità del bordello evoca il coltello del macellaio". E così a poco a poco Madame Edwarda sembra assentarsi da sé, divenendo "totalmente nera, semplice, angosciante come un buco", tra lutto e follia, dolore e rabbia, sempre sull'orlo di sparire, alla ricerca di altro, un altro amplesso, un altro godimento, un piacere doloroso.
Bataille ci fa entrare nel sacrificio, nella "questione ultima", nel movimento che è perdita, offerta senza ritorno, senza impiego:"la mia vita ha senso solo a condizione che io ne sia privo, che io sia pazzo: intenda chi può, intenda chi muore...".

da Mauro Germani, Margini della parola. Note di lettura su autori classici e contemporanei, La Vita Felice, 2014

lunedì 27 giugno 2016

Giacomo Cerrai recensisce "Voce interrotta"


Sono molto grato a Giacomo Cerrai che su "Imperfetta ellisse" ha scritto questa bella recensione a Voce interrotta  qui

martedì 21 giugno 2016

Marco Molinari recensisce "Voce interrotta"


Ringrazio davvero di cuore Marco Molinari per questa sua bella recensione uscita sul quotidiano "La Voce di Mantova" (per leggere cliccare sull'articolo).

domenica 5 giugno 2016

Marco Molinari - Città a cui donasti il respiro



Marco Molinari, Città a cui donasti il respiro, Il Ponte del Sale, 2016

Ci sono luoghi che restano dentro di noi, che ancora incontriamo nello stupore ed abitiamo nonostante il nostro continuo andare. Luoghi che per un attimo incancellabile non smettono di parlarci, di recarci una voce davvero unica che ancora ci chiama. Luoghi che appartengono non solo alla memoria, ma anche al sogno, ad una realtà sottile di velature, che a poco a poco si alzano e scoprono sempre altro. Luoghi di partenze, ritorni, movimenti vissuti o immaginati. Luoghi, ancora, di anni, di respiri, di incontri, che la pagina apre tra incanto e disincanto, grazie ad una parola poetica nitida e trascolorante, precisa nella sua visionarietà.
Nell’ultimo libro di Marco Molinari c’è tutto questo.  E c’è un passato che non è mai passato, che chiama per chiedere  un riconoscimento, un’appartenenza speciale di parole e di sangue, un’identità consapevole della propria misteriosa formazione.
Così, leggendo i vari testi poetici che compongono la raccolta, entriamo in una doppia dimensione: quella del poeta che si cerca nei luoghi della propria esistenza e quella di noi lettori, rapiti da parole e immagini che non sentiamo mai distanti, ma anche un poco nostri, perché vibrano sempre d’altro ed hanno l’impronta netta del destino. Un percorso, quello di Molinari, che accompagna nelle città, nelle piazze, nelle vie, attraversate per comprendere “cos’è celato fra una vita e l’altra”, fra ciò che è stato nell’attimo e ciò che perdura, fra la consapevolezza della nostra finitudine e l’eternità del sogno, di una leggerezza antica e segreta che è nell’aria:“ma non smetterò mai di sognarvi / ed essere sognato da voi”.  E ciò che è accaduto è qui, si muove nelle parole, respira nei versi che ricordano le rivelazioni improvvise (“capimmo che la vita è semplice, / una e misteriosa anche torbida”), le solitudini e le malinconie (“non c’è nessuno lungo la via / le porte murate, l’estate / non l’ha visitata, è uno spegnersi / calmo della luce / che ci afferra inesorabile”), le morti (“Hanno perduto tutto, anche te, vita”), le figure delle persone amate e di tutti coloro che hanno lasciato un segno, insieme ai perduti,  agli afflitti,  agli esiliati, spesso così presenti nei versi di Molinari (“cosa fate, dove siete, nel cerchio / vi attendo, come allora, sempre aperto”).
L’andamento dei testi ci sospinge avanti e indietro, nuove immagini e riprese si succedono con la naturalezza propria di una verità, di un qualcosa che misteriosamente lega gli eventi, i dettagli, le atmosfere. E’ come se fosse davvero l’aria a muovere  le parole (giustamente  nella prefazione al volume, Milo De Angelis definisce arioso il libro), come se fosse il vento a trasportare questa scrittura, il vento che “conosce le stazioni” e “torna sempre dove è partito”.  Perché qui tornare e partire sono tutt’uno, sono il viaggio, sono la vita, il ritmo stesso del respiro.
Nell’aria ci sono presenze come quelle degli uccelli, gli spiriti folletti che seguono ogni partenza, che “fendono l’aria con i loro petti chiari” e recano “promesse fatte, giuramenti, gioie / incollate alle ali, anche le nostre”. E c’è anche il vento maestrale che “lancia le donne in aria”, nella sezione intitolata “Marca”, un poemetto di apparizioni e domande, dai tratti surreali, in cui ciò che accade ha il sapore di un’iniziazione, di una serie di passaggi rituali, di presentimenti, di “giorni di sole”, ma anche di “ombre e tragedie nascoste in tasca”.
Ciò testimonia proprio il carattere visionario del libro, dove possiamo rinvenire momenti che hanno tutta la perentorietà della vita onirica e a cui la parola poetica accede senza forzature . Si veda, ad esempio, oltre al poemetto citato, anche il testo “Via Torta”, nel quale si parla di un importante e misterioso dispaccio da recapitare, ma tutto alla fine si smarrisce, non c’è più orientamento e si perde ogni certezza, in un’atmosfera precisa e sospesa come in un racconto metafisico.
Non un libro di semplici memorie e luoghi privati, dunque, ma una lettura a più dimensioni, che Marco Molinari ci consegna come un dono, verso dopo verso, anzi come un respiro, nella consapevolezza che  “le parole spesso spariscono / se un pastore calmo non le raccoglie”.

Mauro Germani

venerdì 27 maggio 2016

sabato 21 maggio 2016

"Le case dei venti contrari" di Lia Maselli


Dire l’indicibile
Le case dei venti contrari di Lia Maselli
Formebrevi Edizioni, 2016

Ma come si può raccontare quello che non si saprà mai?
Questa domanda, che si trova poco oltre la metà del libro, risulta assai importante per avvicinare non solo la particolare scrittura di Lia Maselli e la storia che viene narrata, ma anche perché fa emergere una serie di questioni intorno all’atto dello scrivere che non sono certo da sottovalutare.
A ben vedere, ogni scrittura nasce proprio da ciò che non si sa, si sviluppa intorno a qualcosa che manca, che si ignora. E lo scopo non è tanto quello di colmare questa lacuna, quanto di renderla visibile e concreta, di farla diventare protagonista, una sorta di centro abissale ai bordi del quale ruota tutto. Del resto, a che scopo raccontare ciò che si presume di sapere già? Siamo proprio sicuri di conoscere veramente ciò che intendiamo raccontare? Il momento della narrazione, del dire non è forse sempre e solo una parte, un residuo, uno scarto, rispetto a quanto ci preme e sentiamo dentro di noi? Non è in qualche modo uno strano e misterioso teatro di parole sofferte e insieme distanti che si apre sulla pagina, che ci viene incontro ogni volta che ci apprestiamo alla lettura? E dov’è mai l’autore dei segni che catturano il nostro sguardo e la nostra mente? Dov’ è sparito? E addirittura: c’è mai stato veramente?
Tutti questi interrogativi, che accrescono indubbiamente il fascino della scrittura (e che sono stati oggetto di studio da parte di Maurice Blanchot), si possono ritrovare tra le pieghe del libro di Lia Maselli, in quanto agiscono in modo sotterraneo, come piccole scosse telluriche al di sotto delle parole e della vicenda stessa, lasciando intuire o intravedere le fratture, le crepe di un abisso segreto e profondo.
Le case dei venti contrari si pone come un romanzo anomalo, che – pur raccontando una storia e conservando quindi una dimensione narrativa -  procede per frammenti ed associazioni che fanno pensare alla poesia.  Qui fabula ed intreccio non coincidono, la linearità della narrazione è continuamente spezzata e frequenti sono i salti spazio-temporali e gli squarci poetici e visionari che conferiscono alla narrazione una sospensione tragica, tra dissolvenze di luce e di buio.
Al centro della storia narrata c’è Aurora con la sua solitudine ed i suoi fantasmi che l’accompagnano: l’ombra del figlio mai nato, poi la scoperta drammatica di un tradimento protratto nel tempo e confessato poco prima di una rinascita forse possibile, ma stroncata da un evento irreparabile. Aurora vuole capire ciò che le è accaduto e per questo interroga i vuoti, le mancanze di senso, “guarda da un punto dove la trama ha ceduto” ed entra così nella zona oscura della propria esistenza, evoca  figure, momenti, parole e sogni che affiorano sia dalla memoria lontana, sia da quella recente.
Ecco allora che tornano le case di un tempo, a cui si avvicina per spiare come faceva da bambina il mondo racchiuso in quelle stanze, scoprirne un’altra verità, le tracce degli anni, i vuoti, i misteri e quei venti contrari che hanno soffiato  sul suo destino.
Sono case dai nomi suggestivi: la casa delle ancore, la casa gatto, la casa scuola, la casa delle rose doppie, la casa dei venti, la casa teatro, per citarne alcune.
Case diverse che sono come apparizioni nelle pagine del libro, avvolte in un’atmosfera tra realtà ed immaginazione, dove ciò che accade  è insieme ricordo e rinnovato stupore, sogno ad occhi aperti, esplorazione di quanto sedimentato nella dimensione inconscia dell’esistenza.
Case-mondi, case che hanno segnato la vita della protagonista, case di una topografia interiore, che vuole essere compresa. Case in bilico – potremmo dire - come in bilico è sempre Aurora, tra i venti forti e contrari del passato e quelli alterni del presente, tra gli eventi irreparabili della propria esistenza e la volontà di scoprire e raccontare cosa nascondono per recuperare i pezzi mancanti: “Guarda, spia, la bambina che ascolta dietro la tenda i discorsi dei grandi. Quella che ha perso qualcosa ed ora è tornata a riprenderselo” (La casa gatto, p.27).
Sono queste pagine molto belle, nelle quali Lia Maselli offre forse il meglio della sua scrittura essenziale e stratificata, secca, ma allo stesso tempo sospesa attorno ad un vuoto, concentrata e concentrica, percorsa anche da lampi visionari. Ciò è particolarmente ravvisabile in certi brani molto brevi, simili a prose poetiche, che sono momenti onirici molto intensi, nei quali si condensano domande e pulsioni in una dimensione spazio temporale che spesso comprende ed associa passato e presente.
Occorre poi aggiungere che la vicenda di Aurora non è isolata, perché attraversata da altre vicende, da simmetrie che sembrano rendere ancor più precaria l’identità della protagonista. L’indagine sul passato lontano e familiare apre infatti altri labirinti ed altri enigmi, gettando una luce ancor più inquietante sulla storia.
La seconda sezione del libro, intitolata La memoria, racconta in una dimensione più storica, un’altra Aurora, che nei primi anni del Novecento, muore di spagnola a soli trentasei anni, lasciando nove figli più il decimo che si spegnerà con lei. Tra i figli Emma, che resta orfana a soli dodici anni, e che sarà destinata a diventare una figura importante per la protagonista. E’ – come si dice a p. 59 – “un filo che scivola lento da Aurora a Emma, da Emma ad Aurora”.
Tutto sembra doppio, se non addirittura multiplo in questo libro, perché la scrittura è sempre l’altra realtà, la rappresentazione che l’atto creativo mette in scena.
Non solo il nome di Aurora è doppio, ma doppio è anche il punto di vista del racconto, nel quale si alterna la terza persona alla prima. Ciò che si narra è spiato e vissuto al tempo stesso.
Lia Maselli scrive e si vede scrivere, racconta ed è raccontata. Il teatro della vita e il teatro della scrittura s’intrecciano e si separano in continuazione, oscillano ai bordi di una domanda senza risposta, di una vertigine, di ciò che non è dato sapere.
L’immagine del teatro, anzi dei teatri, ricorre spessissimo nel libro e si configura non solo come dispositivo narrativo, ma svolge anche una funzione catalizzatrice di quanto attiene all’esistenza, al rapporto io- mondo e a quello tra sogno e realtà.
Un teatro è la casa sottratta alla fisica”, si dice nel libro. Infatti è una sorta di luogo magico che consente l’evocazione del passato, dove si è protagonisti e spettatori al tempo stesso, ma anche molto di più: è il mondo che si spia fin dall’infanzia, lo spazio intimo in cui si provano le parti o ci si ribella per conquistare una propria autonomia, lo scenario in cui rappresentare le proprie scelte ed i propri sentimenti e fare i conti con essi.
Soprattutto qui  vivono i personaggi di questo libro. Escono simili a fantasmi dai fondali oscuri di un teatro interiore dove tutto è già avvenuto, e dicono la loro storia come in attesa di una rivelazione improvvisa , davanti a chi li guarda e li ascolta: noi lettori, certo, ma anche la protagonista e con lei chi scrive.
Tutto avviene intorno ad un buco nero – come si diceva all’inizio – tutta la rappresentazione teatrale va in scena perché c’è una mancanza, un vuoto. C’è una morte repentina che ha interrotto ogni comunicazione, che ha creato un silenzio come un muro invalicabile, che ha cancellato ogni possibilità di dialogo. E’ per questo che Aurora chiama a sé, nel suo teatro, chi non c’è più: per sentirlo parlare con un’altra voce, quella perduta per sempre e che forse potrebbe finalmente dire la verità, dopo le menzogne, le contraddizioni, i silenzi, le promesse del passato:“Perché continua a pensare ai morti? Perché sono le loro parole che ritornano asciutte nell’aria che si muove allo sbattere di una porta sul retro. Aspetta ancora una sua risposta, che sia univoca, che non muti e non si ossidi al contatto. Vuole che lui metta a segno il colpo, prenda la mira sul tempo e colpisca con tutta la forza che ora può” (p. 71).
Il dramma di Aurora è anche questa imprevedibilità del passato, che tra l’altro si fonde bene con la scrittura di Lia Maselli, in quanto quest’ultima sorprende nel suo continuo movimento tra ciò che rivela e ciò che sottende, aprendo – come abbiamo già evidenziato -  stratificazioni, cerchi concentrici o addirittura gorghi abissali, proprio come può avvenire in un testo poetico, pur mantenendo una dimensione narrativa.
Verso la parte finale del romanzo, poco prima dell’ultima sezione, c’è un brano intitolato Il libro, che risulta particolarmente significativo. Qui Lia Maselli sembra svelare le carte  a proposito della sua opera, del suo doppio e del suo teatro. Scrive: “Il libro e il figlio sono i fratelli gemelli delle notti insonni”. E poi: “Mi dicevano pensa il racconto come un corpo. Rispetta le proporzioni. Un inizio e una fine ben congegnati. Ma non parlavano mai del tempo. Della lunga incubazioni di lettere. A volte le proporzioni saltano. Mutazioni improvvise. E quando le attese si interrompono, nel silenzio delle creature che nuotano in limbi immaginari, il libro e il figlio diventano una cosa sola. Un’idea. Una ferita sul mondo”.
Ecco, le proporzioni saltano, perché non ci sono giuste proporzioni nella vita. E nulla è così certo, nemmeno ciò che si è vissuto. I sogni del tempo presente dicono lo smarrimento, ogni ritorno alle origini può essere un girare a vuoto o un allontanamento. Le prospettive mutano.
Tornare dentro i fatti è pericoloso”, si afferma nel libro. Perché? Certamente perché significa mettersi in discussione, guardare criticamente verso ciò che abbiamo fatto e ciò che siamo stati. Significa anche sperimentare nuovi punti di osservazione, scoprire dettagli prima trascurati o ignorati, mutare prospettiva di indagine. Può voler dire inoltre avere dei dubbi, delle perplessità non tanto su ciò che è accaduto, quanto su noi stessi nel momento in cui quel qualcosa è accaduto.
Chi eravamo davvero in quel momento? Che cosa siamo stati?
Il passato allora sfuma, certi particolari possono assumere a volte dimensioni inaspettate. Se il presente dipende dal passato, è anche vero che il passato può dipendere dal presente, perché il tempo è fluido e cambia in rapporto all'esistenza.
Viene in mente ciò che Minkowski, nei suoi studi di psicologia fenomenologica, chiama il tempo vissuto. E' proprio dentro il tempo vissuto che scava la protagonista, è proprio da lì, da quel magma interiore che scaturiscono le sue parole e le sue domande. E' proprio questa zona d'ombra che c'è in noi e nella realtà che contraddistingue il modo d'essere non solo di Aurora, ma anche dell'autrice, la quale a volte la osserva e a volte la vive, in uno scambio continuo, come in un gioco di specchi senza interruzione.
I fantasmi del passato si muovono, arrivano fino al presente con i loro enigmi, ed il presente a sua volta li investe con la sua ansia e la sua inquietudine altrettanto enigmatiche.
Ogni presenza evocata è un'ombra dentro un'ombra più vasta.
Nelle Lettere a un giovane poeta, Rilke scrive:" La maggior parte degli avvenimenti sono indicibili, si compiono in uno spazio che mai parola ha varcato, e più indicibili di tutto sono le opere d'arte, misteriose esistenze, la cui vita, accanto alla nostra che svanisce, perdura". Scrivere, per Rilke, significava stare in ascolto, incontrare il mistero dell'Altro, in un atteggiamento che è stato definito di ardua passività attiva. La scrittura nasce proprio dall'indicibile che è l'esistenza e la parola incarna dunque questa tensione di dire l'indicibile, si situa in questo margine mobile, sfuggente, enigmatico.
Che cosa può allora la parola rispetto a quanto accade dentro di noi, che cosa può rispetto all'esistenza? Questa è la domanda che sta a fondamento di ogni scrittura.
Aurora interroga il tempo passato, ne evoca le presenze, i luoghi, ma contemporaneamente ne avverte l'instabilità, quasi  l'evanescenza. Ogni volta che torna dentro i fatti, sente come un pericolo, apre un teatro d'ombre che è insieme mistero e ferita.
C'è molto passato in questo libro, ma non c'è caduta in un tempo solo, non c'è chiusura, la temporalità non è spezzata perché comunque c'è un tempo presente, una continuità, il teatro interiore di Aurora, il suo sdoppiamento. Senza questa importante dimensione, la storia sarebbe chiusa in se stessa. Invece c'è una grande tensione che nasce da una scrittura che giustamente in un libro come questo non può essere né immediata, né convenzionale. Qui la parola si carica di valenze ulteriori, non vuole semplicemente narrare una storia, ma avvicinare il più possibile la sua zona d'ombra, il suo punto indicibile, in quanto lì è la sua ragione, perché - come sosteneva Edmond Jabès - "dove non c'è rischio, non c'è scrittura".
Nelle ultime pagine un viaggio attraversa gallerie che bucano il tempo, specchi riflettono volti e storie che trascorrono come ombre smarrite. I personaggi compaiono nel loro enigma. Chi sono? Chi è stata Aurora in questa storia? E che cosa comunica Emma con la sua volpe intorno al collo e il suo sguardo trasparente?
Non c'è, non ci può essere una risposta, o almeno una risposta sola.
Questo è un romanzo di interrogativi, di sdoppiamenti, di proiezioni.
La sua verità è nella domanda.

Mauro Germani

lunedì 16 maggio 2016

Presentazione del libro "Le case dei venti contrari"



LIBRERIA FELTRINELLI PARMA - Via Farini, 17

VENERDI  20 MAGGIO 2016  ORE 18.00


Presentazione del libro

LE CASE DEI VENTI CONTRARI

di LIA MASELLI

Formebrevi Edizioni

Insieme all’autrice
MAURO GERMANI

Letture di
ALESSANDRA AZIMONTI



venerdì 6 maggio 2016

Mauro Germani - Voce interrotta




MAURO GERMANI - VOCE INTERROTTA - ITALIC PEQUOD 2016

Una presenza si aggira come un fantasma tra i sentieri desolati delle periferie di un tempo presente, rassegnata davanti al vuoto disarmante del mondo ormai in rovina. Il grido di dolore per la perdita di un'epoca che non esiste che nella memoria, della nostalgia di una luce che fu, lascia il posto al sibilare del vento e al silenzio, dove il rimbombare dei pensieri si fa spesso assordante: "questa fanciullezza dei morti / come un vento lieve / che passa tra i boschi, / o l'eternità / muta del cielo insieme / agli anni, a tutti / i ricordi come / nuvole disperse, / ai passi / quasi a mezz'aria, / senza più carne, / soli / sul breve sentiero". Mauro Germani, ricostruendo una sorta di genealogia dei ricordi e dell'oblio, in Voce interrotta raccoglie le parole chiave di una poetica della dissolvenza, dello svanire, dell'offuscarsi.
(dalla nota di copertina)

sabato 30 aprile 2016

Immagini XII Fidenza PsicoFestival


Venerdì 29 aprile 2016 - ore 17.00
I labirinti della solitudine e del mistero nell'opera di Dino Buzzati
Intervento di Mauro Germani
con Angelo Conforti, direttore dello PsicoFestival



domenica 17 aprile 2016

XII Fidenza PsicoFestival


PsicoFestival - 29 Aprile - 1°Maggio 2016
Centro Giovanile di Via Mazzini - Fidenza

VENERDI 29 APRILE ORE 17.00

MAURO GERMANI
I LABIRINTI DELLA SOLITUDINE E DEL MISTERO NELL'OPERA DI DINO BUZZATI






lunedì 11 aprile 2016

Claudio Magris - Le Voci


Claudio Magris, Le Voci, il melangolo 1995

Invito a leggere (o rileggere) questo bellissimo monologo di Claudio Magris, pubblicato per la prima volta su “Nuovi Argomenti” nel 1993 e poi edito da il melangolo nel 1995. Si tratta  di un piccolo gioiello narrativo (il testo è brevissimo), esemplare per invenzione e nitidezza di scrittura.
Qui il protagonista racconta la sua passione per le voci femminili registrate nelle segreterie telefoniche, voci che egli ritiene le uniche vere e diverse da quelle sguaiate e volgari che si sentono per strada o in altri luoghi nella vita di tutti i giorni.
Egli le ascolta in silenzio, più volte, con estrema attenzione, cogliendone le sfumature, le piccole pause, i respiri, nella consapevolezza che ognuna di esse è unica, irripetibile e che una voce di donna “è come quel cielo cavo, diafano, non si finisce mai di cadervi dentro, di precipitare senza raggiungere il fondo”.
Così si abitua ad annotare scrupolosamente gli orari in cui le segreterie sono attive, onde evitare le risposte dirette delle altre voci, quelle deludenti intorno a lui. In questo capovolgimento, che fa sì che esistano solo le voci registrate, i corpi per il protagonista “sono solo ombre, che spariscono quando cala il sole”, sembrano reali, “ma appena fuori si disperdono come carta straccia spazzata via dal vento, scompaiono dietro gli angoli e le vie sono subito di nuovo deserte”.
Nel suo catalogo di voci, che possono essere di volta in volta chiare, cupe, sfrontate, sottomesse, risentite, indulgenti, egli si rifugia dal mondo esterno, assurdo ed opprimente, trovando quindi una via di fuga dalla propria estrema solitudine, anche se non è per niente facile. Solo le sue voci sono degne di esistere, ma intanto dichiara: “Tutti mi portano via tutto” e la realtà in cui si trova gli risulta sempre più nemica, sempre più estranea.
Stremato dall’insonnia, si sente assediato dalla volgarità del mondo, il quale gli appare improvvisamente come “un’immane centrale telefonica”, che governa ogni cosa. Il suo solitario delirio non può dunque che degenerare ulteriormente, mentre  paranoie ed allucinazioni modificano in maniera irreversibile la percezione della realtà. E la follia, prima latente o innocua, esplode, spalanca l’abisso del mondo.
Mauro Germani