martedì 20 ottobre 2015

Angelo Conforti recensisce "Giorgio Gaber. Il teatro del pensiero"



Ringrazio davvero di cuore Angelo Conforti per questo suo bellissimo articolo sul mio libro.
La recensione è stata pubblicata anche sulla rivista web "Odissea" diretta da Angelo Gaccione. 

Giorgio Gaber: dialettica negativa e nuovo umanesimo

Recensione del saggio di Mauro Germani, Giorgio Gaber. Il teatro del pensiero, Editrice Zona, Arezzo, 2013

di Angelo Conforti

Il boom
L’Italia degli anni ’50 e ’60 non è soltanto il Paese della ricostruzione e del miracolo economico. C’è un profondo rinnovamento culturale in atto che coinvolge tutti i settori della produzione intellettuale ed artistica. Anche il mondo della musica cosiddetta «leggera» sta radicalmente cambiando, sotto l’influenza del rock and roll, ma anche degli chansonniers francesi.
Tra i tanti personaggi emergenti del periodo ben presto si segnala Giorgio Gaber, cantante e autore poliedrico, formatosi anche alla scuola del jazz, e interessato a fondere entrambe le suggestioni più in voga, quella americana e quella d’Oltralpe. È uno sperimentatore, curioso e aperto, garbato e ironico, dotato di un’ottima mimica e di una presenza scenica efficace. Il suo successo cresce costantemente. Si rivela un partner ideale per Mina, con cui fa coppia in alcuni varietà del sabato sera.
Le sue canzoni hanno spesso un tocco di originalità e di sensibilità per la dimensione del quotidiano che si esprime in una serie di titoli che attraversarono tutti gli anni ’60, come La ballata del Cerutti, Trani a gogò, Porta Romana, Il Riccardo, Barbera e champagne, Come è bella la città, La Chiesa si rinnova, Suona chitarra.
Ma Gaber non scrive solo canzoni. Già nella stagione ‘60/’61 mette in scena Il Giorgio e la Maria, regia di Giancarlo Cobelli, al Teatro Gerolamo di Milano, una pièce teatrale recitata in coppia con Maria Monti. E nel 1966, a Studio Uno, a fianco di Mina, si esibisce in un piccolo sketch da lui scritto e recitato, Il Tic, stupendo pezzo di teatro in cui emergono con evidenza tutte le sue doti mimiche, gestuali, vocali, oltre alla sua attenzione per le tematiche sociali, che all’epoca sta già caratterizzando alcune delle canzoni che abbiamo citato.

Il ‘68
Tutte le energie innovative di quegli anni si coagularono nel grande movimento del ’68 che sembrò aprire nuovi orizzonti per il futuro della società italiana. Ma l’attentato terroristico alla Banca dell’Agricoltura di Milano, con tutto quel che significava sul piano politico e sociale sconvolse tutti gli scenari plausibili e aprì una lunghissima stagione di degrado che coinvolse pressoché tutte le componenti del Paese.
Probabilmente già allora, più in profondità, nelle dinamiche socio/culturali in atto si stava già preparando la centralità della televisione e la conseguente mutazione antropologica cui avrebbe dato origine nei decenni successivi: quella trasformazione nel costume, nella mentalità e negli atteggiamenti che Jean Baudrillard ha chiamato “il delitto perfetto”, la sostituzione del mondo virtuale televisivo al mondo reale, l’uccisione della realtà da parte della tv.
Gaber intanto era diventato un vero mattatore del varietà televisivo, ma continuava a sperimentare: l’album concettuale L’asse di equilibrio è del 1968, nei due anni successivi gira per i teatri con Mina, a contatto diretto col pubblico. Poi un altro Lp anomalo, Sexus e politica con Virgilio Savona (testi di autori latini).
Da agosto a ottobre del 1970 conduce l’ultimo varietà televisivo del sabato, E noi qui.
Gaber è all’apice del successo, ma forse è tra i pochi che han già intuito quale sarà la parabola televisiva, già sospetta il delitto perfetto.
E allora abbandona la televisione. Apre la porta del cielo di cartapesta dello studio, come farà anni dopo in un celebre film il protagonista del Truman show, per uscire nel mondo reale e non tornare più indietro.

La svolta: da «personaggio» mediatico a «persona»  reale
Nei trent’anni successivi il declino dell’Italia sembrerà sempre più irreversibile e ben pochi furono coloro che lo capirono per tempo e seppero sottrarsi, senza rimpianti, alla logica della società dello spettacolo preconizzata da Guy Débord, cioè alla logica del consumismo, della mercificazione della cultura e della trasformazione della merce in spettacolo. Gaber fu tra questi e in quei decenni percorse, con estrema coerenza, una strada totalmente alternativa e lucidamente critica, una strada di ricerca, di sperimentazione, di autenticità, di rapporto onesto, sincero, lucido e critico con la realtà concreta, totalmente altra rispetto alla realtà virtuale della tv.
In quegli stessi decenni alcuni intellettuali inseguivano l’utopia della postmodernità individuando nella perdita del senso di realtà e nella moltiplicazione delle immagini un fattore altamente positivo, liberatorio e fonte di emancipazione. Nel contempo quasi una società intera si lasciava tentare dalla promessa che la televisione faceva a tutti e a ciascuno di diventare famosi almeno per 15 minuti, secondo la profezia di Andy Wharol.
Gaber, invece, procedeva «in direzione ostinata e contraria», per usare le parole di un famoso cantautore come Fabrizio De André. Con una scelta radicale e, in qualche modo, clamorosa rifiutava definitivamente di trasformarsi in un personaggio del mondo virtuale e sceglieva, da tutti i punti di vista, di ritrovare il rapporto con la realtà: con il pubblico, con gli avvenimenti, con il contesto socio-culturale e politico, con la fisicità della comunicazione. Il teatro, uno dei mezzi di comunicazione e di spettacolo più antichi, gli consentiva di oltrepassare tutti i limiti e le contraddizioni moderne e postmoderne, garantendogli la possibilità di tornare ad essere una persona reale, di esprimere pienamente se stesso, di esercitare il proprio spirito critico e la propria creatività, senza limiti e condizionamenti di sorta. Non a caso la parola persona ha un pregnante significato ontologico-esistenziale ma anche teatrale.

Il teatro del pensiero
Da qui inizia il saggio di Mauro Germani (Giorgio Gaber. Il teatro del pensiero, Editrice Zona, Arezzo, 2013) che ricostruisce in modo appassionato ed esauriente tutta l’opera del Gaber «filosofo ignorante», intellettuale libero e disincantato, cultore del dubbio, strenuo difensore del pensiero critico, analista anche spietato di una decadenza spaventosa, di “un’idiozia conquistata a fatica”, trent’anni dedicati al Teatro/Canzone e al Teatro d’Evocazione, i due grandi percorsi di sperimentazione e innovazione artistica e culturale in cui si è espressa, con grande originalità, l’inventiva e la multiforme creatività di Gaber e dei suoi collaboratori, primo fra tutti Sandro Luporini, coautore dei testi di canzoni, monologhi e prose.
Innanzitutto Germani ricostruisce il percorso di Gaber alla ricerca di una espressione teatrale originale e autentica, dai primi spettacoli «in cui prosa e musica, monologhi e canzoni si alternano e sono funzionali gli uni agli altri all’interno di un discorso unitario», attraverso le produzioni successive in cui la scrittura teatrale sarà sempre più elaborata, fino al teatro di sola prosa, fondato sulla «rievocazione/rappresentazione» di una storia, ma anche sulla riflessione, l’autoironia e il distacco critico.
In un capitolo successivo Germani chiarisce il ruolo peculiare svolto dalla musica nell’opera di Gaber, mettendo in luce quelle componenti che fanno del suo teatro un caso unico nel panorama musicale italiano, anche in rapporto a quei cantautori cui è stato talora erroneamente accostato. La dimensione teatrale, la scrittura dei monologhi che si alternano alle canzoni, la complessità del ruolo della musica, la ricerca di incisività e di fisicità della comunicazione non hanno pressoché nulla a che vedere con la ricerca di «poeticità» tipica dei cantautori e con i loro recital che non prevedono una specifica strutturazione teatrale, anche quando si svolgono in teatro.

I temi esistenziali
Con rigore metodologico Germani analizza poi i più importanti temi che Gaber e Luporini hanno trattato nei sedici spettacoli che hanno ideato e messo in scena tra il 1970 e il 2000.
Un tema centrale riguarda «l’enigma del corpo», la sua ambivalenza e problematicità e il rapporto con la mente. Si tratta di un tema esistenziale che presenta anche importanti riflessi sociali. Esso ha a che fare con la ricerca dell’autenticità, dell’integrità del soggetto, del superamento della scissione patologica tra pensiero e azione, tra intenzioni e atteggiamenti, che spesso rende contraddittorie le nostre esistenze. Tra l’altro, un autentico rinnovamento sociale è possibile soltanto grazie a persone che abbiano ritrovato la loro «interezza». Non a caso Germani sottolinea la dimensione fisica dei suoi spettacoli, in cui la parola si faceva corpo: «I suoi movimenti erano tutt’uno con i pensieri, le emozioni e i sentimenti che esprimeva» (M. Germani, Giorgio Gaber. Il teatro del pensiero, cit.).
Un altro dei temi fondamentali del teatro di Gaber/Luporini è quello dell’amore, «inteso come sentimento che dovrebbe essere espressione di pienezza, appartenenza reciproca e responsabilità» (M. Germani, cit.). Dopo una lucida analisi delle forme alienate dell’amore, ridotto a routine, a sessualità meccanica, a forma di evasione o di trasgressione rispetto all’ipocrisia delle convenzioni sociali, l’amore autentico si rivela come un «ideale da raggiungere», che esige la fedeltà a noi stessi, richiede «una vera e propria rivoluzione del nostro modo di essere» e riguarda la pienezza della nostra apertura all’altro e al mondo, alla «realtà in tutte le sue manifestazioni» (ibidem).

La società e la politica
Germani dedica una corposa parte centrale del suo saggio all’analisi critica che Gaber/Luporini riservano alla critica della società e del potere, anche alla luce dei loro fondamentali riferimenti filosofici e culturali: Céline, Sartre e l’esistenzialismo, Pasolini, la Scuola di Francoforte (Adorno e Horkheimer).
Viene così ricostruito il percorso degli spettacoli di Gaber, dalla denuncia della mediocrità piccolo-borghese del signor G, alla fine dell’illusione rivoluzionaria che il movimento del ’68 aveva fatto creder possibile, dalla finta libertà obbligatoria del modello capitalistico e consumistico, che conduce al disfacimento del soggetto ed al suo asservimento alle mode, nonché allo strapotere mediatico, all’indignazione per una progressiva disumanizzazione della società, dalla fine delle illusioni di una generazione che ha perso («il volo mancato» di una «razza in estinzione») alla nuova barbarie che dilaga sul finire del millennio e che è il frutto paradossale dello sviluppo capitalistico/borghese e segna la rinuncia al pensiero e alla libertà autentica, nel nome del mito dominante del successo.
Giustamente Germani sottolinea «la sua [di Gaber] straordinaria capacità di interpretare i fenomeni sociali, ma anche di intuire in largo anticipo i loro possibili sviluppi, di precorrere quindi i tempi» (ibidem). A questo proposito è interessante citare, tra i tanti, il brano tratto da «Mi fa male il mondo - seconda parte», canzone-prosa dello spettacolo E pensare che c’era il pensiero (1995-96), in cui, riferendosi alla tv italiana, si parla di «grande libero mercato delle facce. Facce facce... facce che lasciano intendere di sapere tutto e non dicono niente. Facce che non sanno niente e dicono di tutto. Facce suadenti e cordiali con il sorriso di plastica. Facce esperte e competenti che crollano al primo congiuntivo». Vien da pensare a ciò che avrebbero scritto Gaber e Luporini se avessero conosciuto Facebook, il grande libero mercato mondiale delle facce che trionfa, in un’epoca che, come ha scritto di recente il sociologo Luciano Gallino, è contrassegnata dalla sconfitta del pensiero critico e dalla «vittoria della stupidità» (L. Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi, Einaudi, Torino, 2015)
Ma non si può chiudere questo paragrafo senza accennare al fatto che Gaber è tutt’altro che un «apocalittico» e che la sua lunga battaglia polemica è stata sempre orientata alla ricerca dell’autenticità, della pienezza di vita, della libertà che è anche responsabilità, dello spirito critico. Ricorda Germani che la coscienza critica e la dialettica negativa, mutuate dai filosofi francofortesi, sono sempre legate all’utopia, nel senso costruttivo del termine. Perciò, «l’ultimo messaggio di Gaber, espresso nella canzone-prosa Se ci fosse un uomo, consiste proprio nell’esortazione ad “immaginare un neo-rinascimento / un individuo tutto da inventare / in continuo movimento”» (Germani, cit.).

Altri temi: la morte, Dio e l’uomo
Gaber non si tira indietro neanche di fronte al tema della morte, nonostante sia possibile parlarne soltanto rispetto alla morte degli altri, dal momento che la propria morte resta fuori dalle esperienze esistenziali possibili. L’approccio al tema è, come sempre, mutuato dalle fenomenologie tipiche dell’esistenzialismo, di cui tutta l’opera di Gaber costituisce in qualche modo un prolungamento. La morte rivela, come altre esperienze radicali della vita (l’amore, ad esempio) la nostra impotenza, fa emergere sentimenti nascosti, contraddizioni, paure, ansie, ipocrisie.
Ma c’è un’altra morte che preoccupa Gaber e riguarda la dissoluzione del soggetto, l’alienazione totale dell’individuo, che non sa più essere persona, ma si lascia manipolare dalle mode, dai poteri occulti, quello dei media e quello delle merci. È la imminente morte dell’uomo occidentale che, con echi del Nietzsche di Così parlò Zarathustra (1883), Gaber denuncia con modalità ricorrenti lungo tutti i suoi spettacoli. Ci torneremo più avanti.
Infatti, prima di tornare a parlare dell’uomo, Germani analizza la peculiarità del concetto di Dio che emerge dagli spettacoli di Gaber. Si tratta di un Dio immanente, che nulla ha a che vedere con il Dio delle religioni positive, con i loro dogmi, culti e rituali. Contrario a tutti i dogmatismi e a tutti gli assoluti, nei confronti dei quali continua a far appello alla necessaria ed auspicabile rinascita del pensiero critico, Gaber si dichiara laico e seguace del dubbio. Il Dio di Gaber rappresenta l’«essenza del pensiero», è un «Dio interiore […] che coincide con la ricerca stessa, con la sete di conoscenza e verità» (Germani, cit.) ed è, pertanto, capace sia di violenta indignazione che di profonda pietas.
Anche Dio, negli spettacoli di Gaber, rimanda pur sempre all’uomo, che costituisce, infine, il centro di tutto il suo teatro, uomo «inteso non come soggetto assoluto, ma come individuo concretamente esistente» (ibidem).
Germani osserva che quella di Gaber «è una sorta di fenomenologia dell’esistenza, uno sguardo rivolto alla condizione umana nella sua totalità, non chiusa quindi in se stessa, ma aperta e attraversata da tensioni e problematiche che investono anche la sfera sociale, politica ed economica […una] indagine appassionata intorno all’esistenza e alle sue possibilità, ai suoi drammi e ai suoi dilemmi, alle sue speranze e alle sue paure» (ibidem).
Come abbiamo visto poco sopra, Gaber e Luporini percorrono senza infingimenti tutte le tappe della spaventosa deriva antropologica dell’uomo occidentale, ma nel contempo, rifacendosi a Nietzsche, auspicano l’avvento di una sorta di oltreuomo, dotato di «una nuova coscienza» (titolo di una canzone-prosa dell’ultimo spettacolo di Gaber, Un’idiozia conquistata a fatica, 1997-2000): è «l’urgenza di un uomo migliore» e la «necessità di una spinta utopistica» (ibidem) che possano dare origine ad un nuovo umanesimo e a un nuovo rinascimento, al culmine di «questo nostro medioevo» (Gaber, Luporini, «Se ci fosse un uomo», Io non mi sento italiano, cd postumo, 2003).

Il pensiero libero
Rendere possibile un nuovo rinascimento dipende soprattutto dalla riscoperta del pensiero, che costituisce l’essenza di tutta l’opera di Gaber negli ultimi trentatre anni della sua vita e del suo lavoro: «teatro del pensiero», secondo l’icastica e perfetta formula con cui lo ha definito Germani:
«Il pensiero cui tende tutta l’opera di Gaber non è l’affermazione di un sapere organicamente costituito, né tantomeno di una specifica ideologia, quanto uno slancio, una tensione ideale che vuole essere tutt’uno con l’esistenza, con l’esserci, qui e ora, dell’uomo. È la spinta utopica che cerca di dare un senso concreto al nostro essere nel mondo […] Questa tensione è per Gaber qualcosa di “fisico”, non è mai astratta, deve in qualche modo essere carne […]» (Germani, cit.).
A questo proposito Germani cita la canzone «Un’idea» che già nello spettacolo del 1972-73 Dialogo tra un impegnato e un non so, esprimeva, con la geniale invenzione del «mangiare un’idea» per renderla carne, la possibilità di fare un’autentica rivoluzione, per poter costruire «un individuo compiuto /cosciente e intero», esigenza che troviamo ribadita nell’ultimo spettacolo, Un’idiozia conquistata a fatica (1997/2000), con la canzone «Il luogo del pensiero», in cui si sottolinea l’urgenza di tale necessità con i versi «cominciando da adesso / prima che l'uomo muoia / nel grande vuoto del suo successo» (Gaber, Luporini, cit.).
Possiamo concludere con le parole di Germani, in cui mirabilmente si sintetizza tutto il senso dell’opera di Gaber e della sua scelta di vita: «Essere una persona: è questo l’obiettivo cui deve tendere il pensiero. Un pensiero davvero libero, non condizionato dalla società o dalla dittatura del mercato, dalla compra-vendita delle idee» (Germani, cit., corsivi nostri).







lunedì 19 ottobre 2015

Angelo Conforti - Facebook è inutile? Dalla reality tv ai social network, nella società e nella scuola


Con questa sua nuova pubblicazione, Facebook è inutile? Dalla reality tv ai social network, nella società e nella scuola (Csa editrice, 2015), Angelo Conforti, semiologo, presidente dell’Associazione Europea di Psicoanalisi ed esperto di cinema, prosegue la sua indagine critica nell’ambito della comunicazione iniziata nel 2010 con il volume Scuola e televisione. Il declino dell’Italia (Csa editrice).
Qui l’attenzione è rivolta a Facebook e agli altri social, a Internet e alle varie opportunità offerte dalla rete per cercare non solo di comprenderne l’essenza specifica, ma anche per coglierne gli aspetti positivi e negativi all’interno del dibattito in corso.
Se la televisione è un medium che si basa su un modello di comunicazione lineare o sequenziale e provoca uno stato di passività nell’utente/spettatore, il web è invece un ipermedium, che consente percorsi personalizzati di lettura. Il passaggio dall’era televisiva a quella multimediale ha generato e genera opinioni e giudizi di valore contrastanti, che Conforti prende in esame ed espone con grande chiarezza. Mentre gli apocalittici, come ad esempio il politologo Giovanni Sartori, vedono una continuità tra la televisione e Internet e ritengono che sia in atto una vera e propria involuzione dall’homo sapiens all’homo videns verso un post-pensiero in cui il linguaggio concettuale viene cancellato dalle immagini, i cosiddetti integrati, come Michel Serres, vedono profilarsi un Rinascimento tecnologico che dovrebbe rendere tutti più intelligenti.
Conforti prende le distanze  dai due estremi e per quanto concerne l’esaltazione tecnologica sottolinea come nell’ambito scolastico un’istruzione totalmente virtuale non sia certo auspicabile, in quanto “la crescente diffusione delle connessioni alla rete, delle lavagne interattive, dei tablet, degli e-book, delle videolezioni, non deve però mai far perdere di vista l’importanza della funzione docente, il coordinatore dell’apprendimento, il regista di quella crescita educativa e culturale di cui gli studenti sono i protagonisti. L’insegnante non è colui che trasmette il sapere a un uditorio passivo, ma è la guida che conduce i suoi allievi all’esplorazione di territori sconosciuti, fuori dal mondo virtuale della caverna platonica”.
Come già veniva affermato nel precedente libro, non si tratta di demonizzare gli apparati tecnici che abbiamo a disposizione, ma di fornire agli studenti gli strumenti adeguati per un uso critico e consapevole degli stessi, onde evitare il pericolo di sostituire il mondo reale con quello virtuale e di confondere i mezzi con i fini. Conforti si sofferma poi sul concetto di comunicazione orizzontale interattiva su cui si fonda il Movimento 5 stelle per costruire una democrazia diretta , in opposizione alla video politica autoreferenziale, che trova la sua espressione più manifesta nei talk show politici, cioè nel “trionfo della realtà virtuale perseguita da tutto il sistema televisivo”. E’ indubbio che il modello comunicativo de M5S è l’opposto di quello verticistico della video politica, tuttavia occorre tenere presente non solo la distinzione tra semplice informazione e competenza cognitiva, ma anche il possibile uso perverso del web in termini populisti con conseguente manipolazione di opinioni e comportamenti. E questo perché – come sostiene Conforti – “la rete, di per sé, non è in grado di garantire il passaggio dalla democrazia rappresentativa alla democrazia diretta”, che presuppone l’esistenza di un popolo informato sulle questioni da dibattere. L’orizzontalità della rete non deve, cioè, diventare un nuovo dogma nel contesto della nostra età ipermoderna, come viene definita da alcuni studiosi, caratterizzata dalla liquidità dei comportamenti e dei sentimenti, insieme ad un iper-narcisismo alimentato dalla connessione perpetua, che rende quasi nulla la dimensione sociale dell’esistenza.
Conforti giustamente dichiara che “davvero non ne possiamo più di opinioni, a cui ci hanno abituato da tempo i gossip show televisivi e tutto lo tsunami ininterrotto di commenti della ‘gente comune’ sui portali web o sui blog, in coda ad articoli o a post di per sé anche autorevoli o perlomeno interessanti, i tweet a commento di tutti i programmi tv, soprattutto quelli sportivi e di intrattenimento”. Abbiamo bisogno di uscire dalla caverna platonica della doxa e di recuperare un linguaggio più complesso ed elaborato rispetto a quello tipico della conversazione virtuale.
Come rispondere, allora, alla domanda del titolo ed alla sua sineddoche implicita? Certamente non in maniera univoca, giacché la rete è indubbiamente utile per chi la usa con cognizione di causa e non si lascia ingannare dal mito della neutralità tecnologica. Nell’ambito scolastico, poi, numerose sono le opportunità (puntualmente elencate nel volume) che la multimedialità offre agli studenti e agli insegnanti, le quali non sono certo da sottovalutare perché, come viene ribadito, “è nella scuola che si pongono le basi del futuro”.

Mauro Germani

sabato 17 ottobre 2015

Antonio Devicienti - Su tre libri di Mauro Germani



Lo scorso mese di marzo, su Perigeion, è stato pubblicato un bellissimo saggio di Antonio Devicienti (che ancora ringrazio) su tre miei libri: "Giorgio Gaber. Il teatro del pensiero", "Livorno" e "Terra estrema".

https://perigeion.wordpress.com/2015/03/18/su-tre-libri-di-mauro-germani-2/

lunedì 5 ottobre 2015

"Margini della parola" - Recensione di Angelo Conforti




Margini della parola di Mauro Germani: 
dal blog al libro, dal virtuale al reale

L’ultima opera di Mauro Germani, la raccolta di recensioni Margini della parola (La vita felice, Milano, 2014), è un eloquente esempio dell’interazione virtuosa tra nuove tecnologie di comunicazione e tradizionali forme di scrittura, tra telematica e supporti cartacei.
In questo caso, «Margo», un blog letterario tra i più qualificati, intensamente attivo dall’ottobre del 2009 al dicembre 2013 (ma tuttora online), è diventato un pregevole volume di «note di lettura, relative ad autori classici e contemporanei»[1]. Peraltro, il blog era, a sua volta, «nato come ideale continuazione e sviluppo della rivista di scrittura, pensiero e poesia omonima fondata nel 1988 e proseguita fino al 1992»[2].
Ecco dunque un percorso perfettamente circolare in cui, lungi dall’essere antitetici, gli strumenti del comunicare, dell’argomentare e dell’interpretare, risultano complementari, tenendo insieme e potenziando i suddetti aspetti della comprensione umana che forse dovrebbero esser sempre tenute in reciproco equilibrio e non artificiosamente contrapposte.
Si illumina così la personalità poliedrica dello scrittore Mauro Germani, prestigioso poeta, notevole narratore, che mostra ora grande padronanza di una molteplicità di linguaggi e trasforma un genere letterario in qualche modo «minore» in una intensa creazione estetica.
Le sue recensioni costituiscono, infatti, una scoperta veramente sorprendente per l’approccio del tutto personale che Germani riserva a grandi classici, come Bataille, Beckett, Benn, Bernhard, Blanchot, Buzzati, Camus, Caproni, Celan, Céline, de Musset, de Sade, Kafka, Lautréamont, Melville, Morselli, Pascoli, Pasolini, Sartre, Tozzi, Trakl, Volponi, o ad autori contemporanei, magari sconosciuti ai più, ma trattati dall’autore con la stessa attenzione e cura riservata ai cosiddetti «grandi».
Germani nelle sue note di lettura privilegia un aspetto che ritiene cruciale per comprendere l’opera particolare o l’intera personalità poetica di un autore e lo mette in evidenza con il suo linguaggio evocativo e suggestivo, la sua sintassi incalzante e vibrante di una profonda musicalità, trasformandolo in una chiave di lettura spesso esaustiva per la sua potenza simbolica.
I suoi autori prediletti percorrono costantemente i bordi angosciosi e, nel contempo, intriganti, di un abisso che sporge sul nulla e, d’altra parte, altrettanto spesso, sono instancabili esploratori di una possibile dimensione altra dell’essere, sfuggente, talvolta perduta, oppure forse illusoria.
Germani riesce ad entrare in piena sintonia con i suoi autori, stabilisce con loro una corrente empatica, tutta letteraria, simbolica ed estetica, e riesce a far entrare, con le sue recensioni/interpretazioni, i lettori nell’immaginario poetico di ogni singolo poeta o narratore. Con la sua eccelsa capacità di far propri i mondi interiori degli scrittori, quasi fossero tutti suoi eteronimi, o di penetrare nell’essenza più intima di un testo, Germani non fa che rendere evidente il fatto che qualsiasi opera d’arte diviene possesso permanente di tutti e ciascuno, coloro almeno che affrontino l’atteggiamento della lettura con la meraviglia, di fronte all’infinita molteplicità delle esperienze e delle differenze, che sola apre la mente alla scoperta di nuove dimensioni dell’esistere.
Questa predisposizione alla meraviglia può essere il frutto felice còlto da chi si accosti alle note di lettura di Germani: non semplici recensioni, ma preziosi esercizi di ermeneutica testuale (interpretazione, che non deforma e non manipola, ma svela la più intima sostanza delle cose), da cui emergono con forza non soltanto il piacere della lettura e della ricerca, ma anche e soprattutto il bisogno profondo di indagare, senza chiusure e timori, il mistero dell’esistere, «il mistero che racchiude innumerevoli misteri, vite, sogni segreti, ansie, angosce e vizi inconfessabili»[3], o anche lo smarrimento del constatarne la precarietà, l’assurdità, l’assenza di senso.
Margini della parola nobilita il genere, conferendogli quella definitiva dignità letteraria ed estetica, che lo innalza al pari di tutti gli altri, e lo fa con un linguaggio che è, al contempo, di estrema modernità e di composta classica incisività.
                                                                                 Angelo Conforti 







[1] Nota editoriale.
[2] Ibidem.
[3] M. Germani, «La Milano di Buzzati», in Margini della parola, cit.

venerdì 24 luglio 2015

Fleur Jaeggy - Sono il fratello di XX



Fleur Jaeggy, Sono il fratello di XX, Adelphi, pp. 129, euro 15,00

Sono il fratello di XX è una raccolta di venti racconti brevi e brevissimi, che trasmettono al lettore un profondo senso di spaesamento e di vertigine, non solo per le inquietanti vicende narrate, ma anche per la particolare forza espressiva della scrittura.
Quest’ultima appare continuamente spezzata, come se fosse sottoposta  a scosse telluriche incessanti, in grado di provocare nella narrazione sottili slittamenti di senso, che divengono poi veri e propri squarci abissali. I racconti della Jaeggy sembrano infatti  reggersi sulla forza del vuoto dilagante, simili a strane costruzioni edificate sulla solidità del nulla, prive di fondamenta eppure straordinariamente stabili nella loro struttura. E del resto l’assenza, la vocazione al dissolvimento, il desiderio di sparire, di non esserci, sono temi che ritornano ossessivi nei racconti. Si pensi al protagonista del racconto che dà il titolo al volume, ossessionato dall’enigmatica sorella da cui si sente spiato, o dalla tragica ineluttabilità che attende Caspar nel racconto L’ultimo della stirpe.
I personaggi vivono situazioni estreme, come condannati ad un’altra dimensione, un’altra realtà che per loro si spalanca dietro la superficie della vita familiare e quotidiana. Essi sono abitati dall’abisso del loro essere, da ciò che imprevedibilmente li travolge senza apparente motivo e li destina a comportamenti assoluti, fin da bambini o adolescenti (come nei racconti La voliera e La scelta perfetta, nei quali il rapporto madre-figlio è segnato dalla follia) e soprattutto al di là di ogni logico principio di non contraddizione, perché quello che li agita è una forza irriducibile e antica, che non può essere spiegata razionalmente. Come si afferma nel risvolto di copertina, sono mossi da “quello scarto laterale, apparentemente fuori contesto, che è un segreto ancora insondato del comportamento” ed incarnano una frattura tra loro e la realtà che li circonda.
In coerenza con le storie  raccontate, ogni parola della Jaeggy è assoluta e contemporaneamente altra, in quanto inserita in una crescente tensione semantica creata dal periodare interrotto e subito ripreso, come in un singhiozzo senza requie. A rendere ancora più efficace la narrazione, vi è poi il particolare uso dei tempi verbali, alternati spesso tra passato e presente, non solo per sovvertire la scansione tradizionale della temporalità, ma anche per eternare momenti decisivi, fissare fotogrammi di azioni e parole, rendere costante e perenne l’abisso, perché ciò che è stato una volta c’è ancora, è in corso di svolgimento, è sempre qui.
Accanto a questa continua tensione verso il vuoto, è possibile inoltre cogliere l’attrazione esercitata dall’inanimato, il mondo a parte delle cose, che nella loro presenza muta ed enigmatica incontrano la solitudine e la follia di alcuni personaggi. Il tema ricorrente della rinuncia si unisce così al desiderio della non esistenza e si confronta con la “prigione dipinta”, in cui appaiono le figure presenti nei ritratti, ma la fissità dell’immagine, che chiama da un mondo altro, può dire solo l’impossibilità perché in questo altrove la fine non è permessa: “Non c’era alcun luogo chiamato fine”, si afferma infatti nel racconto Il gentiluomo e il ramarro.
Fleur Jaeggy  scrive da sempre dentro luoghi che diventano non-luoghi, contaminati da realtà assolute, le quali chiamano verso un  destino innominabile. La sua parola ci appare  lucente e dura come un cristallo, ma nel profondo conserva l’oscurità da cui nasce. A lei si può attribuire ciò che nel racconto Negde viene riferito a Iosif Brodskij: “Ora scrive nel buio. Gli bastano il foglio e l’inchiostro per tutta la lunghezza della tenebra. Ogni luogo è per lui una città mentale chiamata Negde, che in russo significa ‘da nessuna parte’”.
Mauro Germani





martedì 3 marzo 2015

Cesare Viviani - Non date le parole ai porci



Cesare Viviani, Non date le parole ai porci. Prove di libertà di pensiero su cose della mente e cose del mondo, il melangolo, Genova, 2014

Al centro di questo prezioso libro di pensieri e aforismi di Cesare Viviani vi è la consapevolezza dell’indecifrabilità dell’esistenza e del limite che la contraddistingue e che anzi ne costituisce proprio l’essenza, la sua intima realtà. Si tratta di qualcosa di indicibile e di segreto, di cui la parola stessa è portatrice, un vuoto incolmabile che deve essere accolto nella scrittura come nell’esistenza perché “il vuoto sta alla vita come l’aria, l’ossigeno: senza il vuoto non c’è vita”. Viviani rifiuta decisamente il delirio d’onnipotenza che sembra caratterizzare il nostro tempo, in cui l’uomo si comporta come “un mortale che vive da immortale”, sempre tendente a colmare ogni mancanza ed ogni assenza perché entrambe rimandano “al vuoto fondamentale in cui è sospesa la vita”. Riconoscere il limite assoluto che è in noi non sminuisce il nostro stare al mondo, al contrario  garantisce un’attenzione nuova e diversa, una coscienza condivisa ed umile, priva di illusioni ma anche di aggressività. Perché cercare di spiegare l’inspiegabile, annullare l’esperienza della mancanza, volere a tutti i costi risolvere l’irrisolto, ridurre Dio o l’impensabile a formule o concetti o proprie rappresentazioni?
I “porci” a cui fa riferimento il titolo sono coloro che non hanno rispetto per la parola e la trasformano in grugnito, usandola solo come strumento per l’affermazione di sé; sono coloro che “non sopportano il minimo vuoto”, che “mostrano i loro possedimenti” di cui si vantano e che non meritano alcuna replica, ma solo il silenzio, “lo sguardo abbassato come davanti a una brutta cosa”.
Ma attenzione: il “porco” per eccellenza è chi ha costruito una scissione dentro di sé, formando così due soggetti: quello del malfattore e quello dell’uomo altruista e generoso, simpatico, che si è fatto tutto da sé e sa usare parole convincenti per conquistare la fiducia degli altri. Egli è colui che non rispetta la parola e chi non rispetta la parola non rispetta niente e nessuno.
Viviani ammonisce contro la “voracità umana”, contro l’eccesso e lo spreco che dominano la nostra società e che hanno preso il posto dell’attenzione, della dedizione e della cura necessarie per vivere in una dimensione più equilibrata, senza l’illusione dell’onnipotenza e il senso di una insoddisfazione perenne. C’è l’amara consapevolezza del “predominio del mercato e della monetizzazione di tutto”, del modello-macchina divenuto il riferimento per i rapporti umani ridotti spesso a prestazioni professionali, della morte dei veri sentimenti a causa dell’“azione fisica, ancora non scoperta, non individuata, della telecomunicazione e dell’elettronica sullo psichico, sugli affetti”, della generale e paradossale diminuzione della capacità di ascolto in un’epoca che invece viene presentata come il trionfo della comunicazione stessa. Considerazioni che fanno emergere la necessità di un cambiamento radicale, che abbandoni quell’onnipotenza del fare che riduce tutto ad obiettivi da raggiungere e dimentica i valori fondamentali.
Degne di nota sono, poi, le riflessioni sulla poesia e sulla scrittura. Cesare Viviani ribadisce l’indefinibilità della poesia, la quale conduce “fino al limite del comprensibile, del definibile, del dicibile” ed ha per questo come fondamento il nulla. La lettura di un testo poetico è dunque vertigine, in quanto chi legge è disarmato, senza potere, di fronte al doppio limite della parola poetica e di sé medesimo. Ecco allora l’importanza della discontinuità dell’arte in generale, ed in particolare della frattura nella poesia dei significati abituali, di un ascolto davvero altro che porta alla scomparsa dell’io e ad un’esperienza nuova del pensiero. E a proposito del critico che si occupa di poesia, Viviani afferma che deve fare i conti con l’indefinibile, non con il definito, e sapere che le sue conoscenze non sono sufficienti perché ogni testo poetico si spalanca sul vuoto.
Mauro Germani
(articolo pubblicato su QuiLibri - novembre/dicembre 2014)


martedì 6 gennaio 2015

Rinaldo Caddeo su "Margini della parola"


Mauro Germani, Margini della parola, note di lettura su autori classici e contemporanei, La Vita Felice, Milano, 2014.

   Margine, margo, orlo, bordo, sponda, confine. Spazio di appostamenti insidiosi. Luogo d’arrivo ma anche di partenze. Area delle apparizioni e della sparizione. Sede incerta, precaria, rischiosa, no man land. A questo territorio appartengono sia il tipo di scrittori sia il tipo di lettura prediletti da Mauro Germani nella veste di critico, in questo caso, in altri volumi nella veste di autore di prose e di poesie.
   Questo volume non è un elenco eterogeneo o un’accozzaglia di interventi dispersi, raccolti e messi in fila.
   Solitudine, inappartenenza, assenze, ma anche epifanie del vuoto, vertigini dell’abisso, le forze oscure di un’origine ritrovata e smarrita, la parola indifesa ai bordi dell’inesprimibile, l’esitazione prima di un gesto, i silenzi tra una parola e l’altra, le zone d’ombra in cui la vita si accosta alla morte e la morte s’insinua e si confonde con la vita, il visibile con l’invisibile: questo esercizio dei margini cari a Germani, tra Heidegger e Jabès, innesca e coordina una selezione cogente, canonica e non, di autori e opere. Come nota Sebastiano Aglieco nella Postfazione, li fa risuonare tra di loro.
   Lo scandalo visionario e la scissione schizofrenica tra senso e immagini nei Canti di Maldoror di Lautréamont, gli scenari di una desolazione post-apocalittica di Beckett (Finale di partita), il nichilismo spettrale di Benn, la nudità vertiginosa della parola di Sartre, la frase incessante e lacerata di Thomas Bernhard, le parole che interrogano altre parole, tra silenzi, luoghi chiusi, gesti sospesi, di Blanchot, l’essere-nel-mondo estraniato e traslucido del Mersault ne Lo straniero di Camus, le narrazioni della catastrofe di Céline, l’estraneazione interminabile di Kafka, lo sradicamento dolce e lancinante di Trakl, i ghirigori di cenere di Celan, le circolarità spettrali e labirintiche di Cattafi, le cronache del mistero di Buzzati, il solipsismo radicale di Morselli, dove il suicida è vivo e i vivi sono i morti (Dissipatio H. G.), la coscienza sveviana dell’inettitudine a vivere in Tozzi, gli ossimori, le ellisi, le paronomasie degli appostamenti al nulla di Caproni… sono solo alcuni paradigmi. Questo e altro ci riserba Germani.
   Questi e altri che non intendono radere al suolo una panoramica del ‘900 né erigono muri inviolabili o compartimenti stagni. Semmai perlustrano territori di cui svolgono gli orizzonti inauditi e rintracciano gallerie scavate da parole inconfondibili, per le generazioni di lettori e di scrittori che si succedono, lungo una linea (certo non l’unica) frastagliata, ma non gratuita, che si attesta tra espressionismo, surrealismo, esistenzialismo, in modo libero e indipendente, transitando da retrovie recondite a casematte e avamposti isolati. Qui, in questi incroci sotterranei o su queste cime impervie, entrano in gioco una quinta e una sesta generazione di autori noti, poco noti o quasi del tutto sconosciuti, a cui un dispiegamento del secolo appena trascorso riserva finalmente lo spazio che meritano. Non faccio altri nomi. Ai lettori affido il diritto e il piacere di conoscerli o di ritrovarli.
   Germani mescola le voci primonovecentesche, nonché tardo-ottocentesche (si parla anche di Pascoli e di Melville), con le voci di alcuni contemporanei viventi e scriventi. Non le giustappone né le collega forzosamente, piegandole a un’ideologia o a una poetica. Le descrive e le propone con rispetto e semplicità. Piuttosto le intride ai paesaggi marginalistici a lui cari. È un’indagine condotta con lo sguardo limpido di un sermo brevis, vibrante e incisivo, che riesce a informare, cogliendo i nessi e gli snodi essenziali e a suscitare la curiosità e lo stupore necessari per ascoltare, capire e interpretare una gamma speciale di autori e di opere.

Rinaldo Caddeo