giovedì 22 marzo 2012

Mauro Germani - Terra estrema



Mauro Germani Terra estrema  (Interventi di Marco Ercolani e Fabio Botto) -  L'arcolaio 2011


I
Nella stanza cresceva l’ombra, il sonno come un addio. Lui ripeteva il dolore di quelle scale come fosse per sempre, come un gesto scampato al disastro di fuori. Lei aveva pochi minuti, oppure una vita intera, lo guardava e lo ricordava senza trattenerlo, con calma, nella vertigine chiusa di quello spazio segreto.


II
C’era stato un giuramento lì, un attimo assoluto.
C’era stato un amore incurabile, la luce tremante dei volti, la strada lontana. Un abbraccio senza mondo, vicino alla carie dei muri, dove era più facile perdere, non avere giorni, non avere nomi.



III
Lei vendeva il suo corpo per essere infelice e poter dormire. Trovava sempre un sorriso, anche nella fame disperata, negli appuntamenti veloci. Chiedeva aiuto da quei cassetti aperti e confusi, da una foto ingiallita, da una borsetta dimenticata.
Per sé aveva qualche stagione, un albero che sorrideva, un po’ di neve, una rosa gialla, un piccolo ramo spezzato.
Per sé piangeva in silenzio.


IV
Lui era un poeta e le sue parole, le sue domande non uscivano da quella stanza.
A volte la notte gli rispondeva dicendo: “Verrà l’ora onnipotente, verrà come una ladra e sarà una bambina dai capelli bianchi. Ti riconoscerà e ti porterà con sé per sempre. Andrete lontano, andrete dove non c’è ritorno e la vostra solitudine sarà immensa e gloriosa …”.


V
“Ti mentirò sempre il male, l’urto delle moltitudini”, le diceva quando era bello non essere lì, sognare una casa lontana, un destino senza destino, una fiamma e un vento solo per loro.
Lei si perdeva e si ritrovava come in un’infanzia di terra e di nuvole, una meraviglia buona e solitaria, un patto raccontato dal cielo.


VI
Tutta la stanza era ferita, una domanda imperfetta che non pretendeva più nulla, una grazia sfiorita negli occhi.
Non poteva esserci salvezza nelle loro parole dilaniate, in quelle promesse informi e capovolte, in quella curva feroce del tempo.


VII
Qualcosa si preparava per finirli. Qualcosa come un urlo soffocato nelle pareti, una sentenza incisa nella carne, un allarme scappato da tutte le vie.
Così scendevano nell’imperdonabile resa, nel gorgo vuoto e maledetto, nella gola bruciata e senza parole. Così si allontanavano nel comando finale.


VIII
Il loro corpo fu l’ombra, la luce, il sogno, la ferita.
Furono gli anni dietro le finestre, il pane secco nella credenza, i millimetri di ogni febbre e di ogni bacio, la patria segreta delle lenzuola, ma anche le impronte senza riparo, l’alleanza sconfitta del mondo, un addio incessante.

 Il loro corpo fu  solo quella stanza, quella terra estrema.

giovedì 15 marzo 2012

L'arrivo di Wang

CINEMA E PENSIERO
a cura di
ANGELO CONFORTI


L’arrivo di Wang (2011) dei Manetti Bros.: i problemi del relativismo e dell’ermeneutica in chiave fantascientifica ed ironica

Sentinella (Sentry) di Fredric Brown è un racconto di fantascienza del 1954 che, in una sola pagina, con la straordinaria efficacia della grande letteratura, squarcia il velo dell’inguaribile antropocentrismo degli umani e ci guida nel territorio esplorato, sulla scorta del prospettivismo di Nietzsche, soprattutto da Heidegger e Gadamer: la precomprensione ontologica, il pregiudizio, il radicale relativismo di tutto ciò che esiste come terapia per il dogmatismo, l’ermeneutica invece dell’ostinata certezza di possedere una qualche verità definitiva, il pluriverso al posto dell’universo ormai troppo piccolo. Il protagonista, soldato di una guerra galattica, ormai da troppo tempo lontano da casa, nascosto nella sua trincea che è incaricato di proteggere e difendere, si lascia andare alla malinconia e alla nostalgia causate da un conflitto interminabile contro una specie aliena, pericolosa e aggressiva. Mentre è assorto nei suoi tristi pensieri, che chi legge tende a far propri, un nemico si avvicina, ma la sentinella lo sente e lo uccide. Poi, come gli è successo altre volte, si fa prendere dal disgusto per quel cadavere mostruoso, con due braccia e due gambe, con la pelle di un bianco ributtante e senza squame.
Prendono spunto da una situazione analoga, anche se in parte rovesciata e più articolata per le esigenze del racconto filmico, i fratelli Manetti, con il loro L’arrivo di Wang (2011), che si divertono, all’insegna della leggerezza e dell’ironia, a giocare con gli stereotipi del genere e a problematizzare in modo radicale il tema dell’altro come necessariamente diverso, alieno e mostruoso, portandosi oltre il mirabile capovolgimento prospettico del racconto di Brown.
Non è certo un film per “poeti laureati”, o per chi va in cerca dell’opera d’arte, o almeno dell’impegno sociale e civile. È divertimento intelligente, che sta decisamente lontano dalla seriosità di certo cinema volutamente e a volte artificiosamente d’autore, ma è un film che con tutti i suoi limiti allarga gli orizzonti mentali, moltiplica le prospettive e fa pensare (e non è forse questo lo scopo dell’arte, anche se minore, e di chi manifesta comunque una propria creatività e autorialità?).
Costruito sui collaudati meccanismi della suspense e della sorpresa (che sconsigliano di rivelarne, anche soltanto in parte, la trama), il film si spinge sul confine tra postmodernità e incipiente nuovo realismo e ci insegna, come già aveva fatto Gadamer, che è bene non voler essere illuministi in eccesso e che è prudente non sbarazzarci troppo in fretta dei nostri inevitabili pregiudizi, in cerca di un’emancipazione altrettanto acritica del cieco e passivo adeguarsi al pensiero dominante.

Angelo Conforti