domenica 9 dicembre 2012

L'attesa e l'ignoto. L'opera multiforme di Dino Buzzati




Mauro Germani (a cura di), L'attesa e l'ignoto. L'opera multiforme di Dino Buzzati, con un'intervista di Mauro Gaffuri ad Almerina Buzzati, L'arcolaio 2012 - 15 euro

Questo volume presenta contributi inediti di critici, poeti e scrittori contemporanei sull'opera multiforme di Dino Buzzati e ripropone alcuni saggi pubblicati nel dicembre 1991 sulla rivista "Margo". Le riflessioni riguardano non solo il Buzzati più noto, ma anche quello meno conosciuto, cioè il poeta, il drammaturgo ed il librettista d'opera. A rendere ancora più prezioso il volume, una lunga ed interessante intervista ad Almerina, la vedova dello scrittore.

venerdì 18 maggio 2012

Sulla poesia







La poesia non ha protezioni, è senza difesa: non può e non deve averne.

La sua forza sta nella nuda parola, nella sua necessità e nella sua verità.
Occorre accoglierla e preservarla dal mondo inautentico della chiacchiera, dove tutto è commercio e consumo immediato.

Dove non c’è rischio, non c’è scrittura” ha affermato Edmond Jabès e tale affermazione vale per sostenere un senso forte della poesia, un legame stretto tra scrittura poetica e destino, nella consapevolezza che scrivere non è un gioco.

Si scrive sempre da un esilio, come sospesi tra due abissi: un fondo oscuro e segreto che si spalanca alle nostre spalle e qualcosa che da sempre ci attende come un destino.

Ciò che resta è la traccia di una scomparsa, il segno di una voce perduta e di un desiderio, la risposta ad una chiamata antica.

La poesia è gettata nel mondo, è delicata e potente al tempo stesso. Nasce ai bordi dell’inesprimibile, tra salvezza e perdizione, tra memoria ed oblio.

Il poeta è colui che vive in sé la frontiera, il margine, l’inquietudine di un’alterità inafferrabile che sente nell’ombra. Sperimenta l’assenza dell’Altro e nel contempo ne ricerca la voce, una voce che da sempre tace nel suo dire, che si sottrae nel suo essere qui, nella carne e nel dolore dell’esistenza.

Che cosa costruisce allora il poeta? Difficile dirlo. Nel testo c’è  un altro testo perduto, tutta l’incompiutezza della scrittura, ma anche una smisurata volontà senza nome, un assoluto che cerca d’incarnarsi sulla pagina. Per sempre. O mai.

Ancora Edmond Jabès: “Per lo scrittore ogni parola scritta nasconde un’altra parola del tutto inafferrabile ma incessantemente differita e infinitamente più essenziale. Verso questa parola egli tende”. E proprio questa tensione mai placata definisce a poco a poco lo spazio della scrittura, una zona che è per noi lontananza ed intimità, spaesamento e familiarità, costruzione e maceria. 

Mauro Germani




                                                                                                             

giovedì 22 marzo 2012

Mauro Germani - Terra estrema



Mauro Germani Terra estrema  (Interventi di Marco Ercolani e Fabio Botto) -  L'arcolaio 2011


I
Nella stanza cresceva l’ombra, il sonno come un addio. Lui ripeteva il dolore di quelle scale come fosse per sempre, come un gesto scampato al disastro di fuori. Lei aveva pochi minuti, oppure una vita intera, lo guardava e lo ricordava senza trattenerlo, con calma, nella vertigine chiusa di quello spazio segreto.


II
C’era stato un giuramento lì, un attimo assoluto.
C’era stato un amore incurabile, la luce tremante dei volti, la strada lontana. Un abbraccio senza mondo, vicino alla carie dei muri, dove era più facile perdere, non avere giorni, non avere nomi.



III
Lei vendeva il suo corpo per essere infelice e poter dormire. Trovava sempre un sorriso, anche nella fame disperata, negli appuntamenti veloci. Chiedeva aiuto da quei cassetti aperti e confusi, da una foto ingiallita, da una borsetta dimenticata.
Per sé aveva qualche stagione, un albero che sorrideva, un po’ di neve, una rosa gialla, un piccolo ramo spezzato.
Per sé piangeva in silenzio.


IV
Lui era un poeta e le sue parole, le sue domande non uscivano da quella stanza.
A volte la notte gli rispondeva dicendo: “Verrà l’ora onnipotente, verrà come una ladra e sarà una bambina dai capelli bianchi. Ti riconoscerà e ti porterà con sé per sempre. Andrete lontano, andrete dove non c’è ritorno e la vostra solitudine sarà immensa e gloriosa …”.


V
“Ti mentirò sempre il male, l’urto delle moltitudini”, le diceva quando era bello non essere lì, sognare una casa lontana, un destino senza destino, una fiamma e un vento solo per loro.
Lei si perdeva e si ritrovava come in un’infanzia di terra e di nuvole, una meraviglia buona e solitaria, un patto raccontato dal cielo.


VI
Tutta la stanza era ferita, una domanda imperfetta che non pretendeva più nulla, una grazia sfiorita negli occhi.
Non poteva esserci salvezza nelle loro parole dilaniate, in quelle promesse informi e capovolte, in quella curva feroce del tempo.


VII
Qualcosa si preparava per finirli. Qualcosa come un urlo soffocato nelle pareti, una sentenza incisa nella carne, un allarme scappato da tutte le vie.
Così scendevano nell’imperdonabile resa, nel gorgo vuoto e maledetto, nella gola bruciata e senza parole. Così si allontanavano nel comando finale.


VIII
Il loro corpo fu l’ombra, la luce, il sogno, la ferita.
Furono gli anni dietro le finestre, il pane secco nella credenza, i millimetri di ogni febbre e di ogni bacio, la patria segreta delle lenzuola, ma anche le impronte senza riparo, l’alleanza sconfitta del mondo, un addio incessante.

 Il loro corpo fu  solo quella stanza, quella terra estrema.

giovedì 15 marzo 2012

L'arrivo di Wang

CINEMA E PENSIERO
a cura di
ANGELO CONFORTI


L’arrivo di Wang (2011) dei Manetti Bros.: i problemi del relativismo e dell’ermeneutica in chiave fantascientifica ed ironica

Sentinella (Sentry) di Fredric Brown è un racconto di fantascienza del 1954 che, in una sola pagina, con la straordinaria efficacia della grande letteratura, squarcia il velo dell’inguaribile antropocentrismo degli umani e ci guida nel territorio esplorato, sulla scorta del prospettivismo di Nietzsche, soprattutto da Heidegger e Gadamer: la precomprensione ontologica, il pregiudizio, il radicale relativismo di tutto ciò che esiste come terapia per il dogmatismo, l’ermeneutica invece dell’ostinata certezza di possedere una qualche verità definitiva, il pluriverso al posto dell’universo ormai troppo piccolo. Il protagonista, soldato di una guerra galattica, ormai da troppo tempo lontano da casa, nascosto nella sua trincea che è incaricato di proteggere e difendere, si lascia andare alla malinconia e alla nostalgia causate da un conflitto interminabile contro una specie aliena, pericolosa e aggressiva. Mentre è assorto nei suoi tristi pensieri, che chi legge tende a far propri, un nemico si avvicina, ma la sentinella lo sente e lo uccide. Poi, come gli è successo altre volte, si fa prendere dal disgusto per quel cadavere mostruoso, con due braccia e due gambe, con la pelle di un bianco ributtante e senza squame.
Prendono spunto da una situazione analoga, anche se in parte rovesciata e più articolata per le esigenze del racconto filmico, i fratelli Manetti, con il loro L’arrivo di Wang (2011), che si divertono, all’insegna della leggerezza e dell’ironia, a giocare con gli stereotipi del genere e a problematizzare in modo radicale il tema dell’altro come necessariamente diverso, alieno e mostruoso, portandosi oltre il mirabile capovolgimento prospettico del racconto di Brown.
Non è certo un film per “poeti laureati”, o per chi va in cerca dell’opera d’arte, o almeno dell’impegno sociale e civile. È divertimento intelligente, che sta decisamente lontano dalla seriosità di certo cinema volutamente e a volte artificiosamente d’autore, ma è un film che con tutti i suoi limiti allarga gli orizzonti mentali, moltiplica le prospettive e fa pensare (e non è forse questo lo scopo dell’arte, anche se minore, e di chi manifesta comunque una propria creatività e autorialità?).
Costruito sui collaudati meccanismi della suspense e della sorpresa (che sconsigliano di rivelarne, anche soltanto in parte, la trama), il film si spinge sul confine tra postmodernità e incipiente nuovo realismo e ci insegna, come già aveva fatto Gadamer, che è bene non voler essere illuministi in eccesso e che è prudente non sbarazzarci troppo in fretta dei nostri inevitabili pregiudizi, in cerca di un’emancipazione altrettanto acritica del cieco e passivo adeguarsi al pensiero dominante.

Angelo Conforti

martedì 31 gennaio 2012

Woody Allen - Midnight in Paris

CINEMA E PENSIERO
a cura di
ANGELO CONFORTI



Midnight in Paris (2011) e l’antropologia fantastica di Woody Allen

“Il titolo di questo libro giustificherebbe l'inclusione del principe Amleto, del punto, della linea, della superficie, dell'ipercubo, di tutte le parole generiche e, forse, di ciascuno di noi e della divinità. Insomma, quasi dell'universo”. Così Jorge Luis Borges introduce il suo Il libro degli esseri immaginari (1967), in cui tuttavia decide di attenersi al significato più immediato e restrittivo del termine “esseri immaginari”, compilando un “manuale di zoologia fantastica”, un catalogo di tutti quegli strani enti che la fantasia degli uomini ha generato nel corso del tempo e nei più diversi luoghi, simboli archetipi dell’inconscio collettivo, specchi dei più diversi aspetti della psiche umana, che nella natura animale affonda le proprie radici.
Anche il cinema, che, come la letteratura, è un doppio dell'universo, è un grande “libro” degli esseri immaginari. Alcuni film di Woody Allen, proprio come il prezioso volumetto di Borges, si prestano ad essere compresi in una speciale categoria, quasi volessero rappresentare una sorta di manuale di antropologia fantastica.
Tra tutte le varie componenti del cinema di Allen, comunemente considerato quasi soltanto un genio della commedia, non si può certo dimenticare la dimensione profondamente filosofica, che lo attraversa da cima a fondo e che lo spinge a cimentarsi con diversi generi narrativi esplorando a fondo anche la strada di quello che si può definire “realismo magico”. In tal modo ha creato una galleria di personaggi che, come accade agli animali fantastici del bestiario di Borges, rappresentano, nella forma ironica e di raffinata comicità che Allen non abbandona quasi mai, veri e propri archetipi della personalità umana, della sua complessità e varietà di manifestazioni.
Uno degli esempi più eccelsi, un vertice quasi assoluto di questo catalogo di umanità immaginaria lo si può trovare nel “camaleonte umano” Leonard Zelig (Zelig, 1983), l’incredibile individuo che assume personalità diverse ogni volta che deve adattarsi ad un nuovo ambiente.
Un altro esempio folgorante è costituito da La rosa purpurea del Cairo (1985), che è anche il titolo del film che la protagonista Cecilia vede e rivede ogni giorno, per sfuggire alla difficile quotidianità della depressione americana anni ’30. La sua assiduità e la sua immedesimazione nell’avventurosa e romantica storia di finzione ha il potere di far uscire dallo schermo il fascinoso protagonista per vivere con lui una breve storia d’amore.
A questa antropologia immaginaria appartiene di certo anche lo sceneggiatore e aspirante scrittore americano Gil (Owen Wilson), il protagonista dell’ultimo capolavoro di Allen, Midnight in Paris (2011): ha idealizzato la Parigi degli anni ’20 del Novecento e gli càpita di salire su una sorta di macchina del tempo e di trovarsi ad ascoltare dal vivo Cole Porter al piano e di conversare con Scott Fitzgerald e sua moglie Zelda, con Ernest Hemingway, Pablo Picasso, Salvador Dalì, Luis Buñuel, Gertrude Stein e altri.
Gli succede anche di innamorarsi di Adriana (Marion Cotillard), una delle amanti di Picasso, e di rompere il fidanzamento con la sua futura moglie. Ma Adriana, a sua volta, vive del mito della belle époque e, quando entrambi vengono trasportati su una carrozza del tempo fino al celebre Chez Maxim del passato, dove incontrano Toulouse-Lautrec, Adriana decide di rimanere, mentre Gil torna al presente e inizia a frequentare una ragazza conosciuta nel Quartiere Latino che, come lui, ama le canzoni di Cole Porter.
È curioso che ancora si possa trovare in questo film, pieno di humour, di romanticismo, di nostalgia e di magia, ancora un parallelismo con Borges che, nell’appendice de Il libro degli esseri immaginari, racconta dei “Laudatores temporis acti”, la setta degli adoratori del passato, descritti nel Seicento dal portoghese Luiz da Silveira.
Adriana e Gil appartengono sicuramente a questa categoria umana, anche se con sfumature diverse.
Proprio grazie a questi esseri immaginari, che divengono simboli di componenti molto concrete e realistiche della psiche umana, riusciamo a comprendere meglio noi stessi, le nostre caratteristiche più profonde ed inconsce.
Angelo Conforti

martedì 17 gennaio 2012

Nota critica di Rosa Pierno su "Terra estrema"


In occasione della lettura a Verona dei Poeti Finalisti della XXV Edizione del Premio Lorenzo Montano 2011

Una frequentazione della filosofia che divenga combustile nella fornace della poesia è esperienza usuale, ove però di volta in volta, per singolo caso, è importante verificare il lavoro sulla parola e sulla sintassi e in ultima analisi il portato di tale investigazione. Ci pare che il lavoro di Mauro Germani, testimoniato dalla sua silloge “ Terra Estrema”, effettuando un prelievo terminologico dal contesto filosofico innanzitutto semplifichi al massimo la presenza del tessuto sintattico, quasi giungendo a un dettato elementare: “E’ questo solo / lo scandalo della carne, / l’enigma di ogni nome, / il pianto segreto / delle mie parole..”. In tale semplificazione, giocoforza acquistano maggior rilievo i termini presenti, monadi indeclinabili e non relazionabili, sui quali Germani sceglie di non attuare nemmeno una teatralizzazione dialettica. ”Non sappiamo il corpo / l’assoluta verità del sangue”: scissi i legami tra parole, esse paiono rilucere in un vuoto simulacro. In fondo, esse sono state private anche del loro bagaglio storico. Sembra che siano vicinissime a perdere ogni senso: “E non c’è più / non è più qui / il corpo ignoto / del mondo”. Che tale svuotamento sia progetto strenuamente perseguito ci viene dichiarato da Germani stesso: “Il passo che non ha sentiero /e scende nel cuore dell’ombra / solo / lungo il crinale del tempo. / Dov’è mai adesso? / Dove mai non c’è?”. L’auspicata presentificazione dell’essere forse non avverrà, non è che una speranza o una proiezione, e allora sarà “qualcosa come un respiro, /  il nome perduto del mondo”. Di tutta evidenza che l’essere non appartiene che al regno delle parole per Germani: “E quanti anni nel corpo / quante domande /per dire noi /per dire senza”. Ma è appunto solo nella scrittura che si può tentare: “Scrivere sempre / il già / cancellato”.