lunedì 12 dicembre 2011

Psyco: lo spettatore e il suo doppio

25/02/2011

CINEMA E PENSIERO
a cura di
ANGELO CONFORTI





Psycho(1961) di Alfred Hitchcock: lo spettatore e il suo doppio
 

Cinquant’anni fa Alfred Hitchcock (1899-1980), grande maestro del cinema del Novecento, realizzava Psycho, uno dei suoi capolavori, il primo film in cui fu proibito ufficialmente agli spettatori di entrare in sala a spettacolo già iniziato.
Indagando sugli abissi della psiche umana, come in molte altre sue notevoli opere, Hitch in Psycho si è particolarmente divertito a sperimentare una serie di soluzioni tecniche, stilistiche, narrative e strutturali che fanno di questo celeberrimo film un caso quasi unico nella storia della decima Musa.
La vicenda, notissima, è quella di un giovane (Norman Bates, stupendamente interpretato da Anthony Perkins) sofferente di un grave ed irrisolto complesso di Edipo, che lo induce ad uccidere la tirannica madre e a tentare di mantenerla in vita impagliandone il cadavere e, soprattutto, identificandosi con lei e sdoppiando la propria personalità in un devastante conflitto psichico.
E così Hitchcock si diverte ad “uccidere” dopo un terzo di film la star femminile (la celebre Janet Leigh), in una sequenza cult (quella dell’omicidio nella doccia) che dura 75 secondi ma è composta di 90 inquadrature ed ha richiesto circa una settimana di lavorazione, una controfigura, un manichino e una gran quantità di posizioni diverse della macchina da presa.
Eppure ciò che soprattutto ha divertito il grande maestro britannico del brivido è il gioco che conduce abilmente e spregiudicatamente con l’inconscio dello spettatore, con la doppia, o multipla, personalità di chi assiste al film (in cui ad essere indagata non è solo la psiche di Norman Bates, ma soprattutto quella di tutti noi).
Accurati studi sulle dinamiche psichiche inconsce indotte dal cinema (Jean-Louis Baudry, Cinéthique, 1970) hanno messo in luce il parallelismo con la cosiddetta fase dello “specchio”, trattata dallo psicoanalista Jacques Lacan (Ecrits, 1949). Nella sala cinematografica buia, l’immobilità cui è “costretto” lo spettatore, il fatto che il suo campo visivo sia pressoché completamente impegnato dallo schermo, e da quanto accade su di esso, sono condizioni che tendono a riprodurre l’esperienza primaria vissuta dal bambino nell’età tra i sei e i diciotto mesi circa in cui, raggiunto un elevato sviluppo delle capacità visive e con capacità motorie ridotte, impara a riconoscere se stesso come un soggetto autonomo e, vedendo la propria immagine riflessa su superfici speculari, “identifica” se stesso; così, distinguendosi rispetto al resto del mondo, inizia a costruire il proprio Io. L’analogia tra schermo e specchio, nel corso della proiezione cinematografica, induce a sviluppare un processo di identificazione tramite il quale lo spettatore vive “in prima persona” la vicenda del film, con tutte le emozioni che essa suscita, e rafforza in tal modo il proprio Io.
Consapevole di queste dinamiche, il gioco di Hitchcock consiste nell’impedire sistematicamente tale identificazione, contrastando la “costruzione” dell’Io da parte dello spettatore.
Manca, innanzitutto, almeno a prima vista, un vero protagonista, cioè un personaggio con cui immedesimarsi, condizione indispensabile per garantire allo spettatore un riflesso virtuale in cui rispecchiare se stesso per “vivere” la vicenda.
In secondo luogo, tutte le attese dello spettatore sono create per essere poi deluse e rovesciate in modo sorprendente, in un dialogo inconscio tra regista e pubblico che presenta aspetti di grande interesse. Poco prima della sequenza della doccia, lo spettatore è indotto ad aspettarsi un’aggressione sessuale di Norman nei confronti della giovane ospite del suo motel. Invece, con un clamoroso effetto-sorpresa, si trova ad assistere all’omicidio della ragazza da parte della madre di Norman. Il pubblico non sospetta nemmeno lontanamente che si tratta realmente di un’aggressione sessuale sui generis, compiuta dallo schizofrenico Norman, la cui personalità è a tratti dominata da quella della madre che vive in lui. Lo apprenderà soltanto alla fine, non prima di essere stato di nuovo variamente sorpreso nei suoi sistemi di attese.
Hitch, infatti, utilizza con particolare maestria le dinamiche strutturali e narrative della suspense e della sorpresa.
La prima consiste nel fornire al pubblico alcune informazioni sulla vicenda che i personaggi invece ignorano, in modo da mettere in atto un coinvolginento inconscio per la sorte dei medesimi personaggi, a causa degli eventi che si svolgono. La seconda, al contrario, consiste nel tener nascosti agli spettatori alcuni presupposti essenziali della vicenda impedendo loro di prevederne gli sviluppi che, dunque, quando accadono, sconvolgono le convinzioni del pubblico stesso. Il segreto sta nel fornire, con la prima dinamica, false informazioni, creando un’aspettativa (la suspense) fondata su presupposti errati e creando, con la seconda dinamica, uno sconvolgimento ancor più soprendente di quel che ci si poteva aspettare.
Noi, seduti sulla comoda poltrona della sala, desideriamo ottenere certezze, ci aspettiamo la catarsi, la ricomposizione dell’armonia narrativa, la verità definitiva sulla vicenda messa in scena.
Ma l’epistemologia hitchcockiana non prevede una sola verità. È vero che Norman soffre di un attaccamento morboso alla madre tirannica e possessiva, che gli impedisce di raggiungere la maturità affettiva e sessuale e di amare, conquistare e possedere le ragazze in modo, per così dire, normale. È vero che Norman è un assassino che uccide tutte le giovani fanciulle che passano per il suo motel, ma è un assassino per amore, sia pure un amore patologico: uccide con un coltello, simbolo fallico, simbolo per eccellenza della penetrazione e della congiunzione erotica. È vero che Norman è anche la sua stessa madre tirannica e possessiva, che uccide le ragazze che il figlio desidera e vorrebbe amare.
Insomma, la psicologia hitchcockiana non include l’Io come struttura compiuta, unitaria e armonica, quanto piuttosto un aggregato complesso e conflittuale di personalità diverse.
E noi, in mancanza di un riflesso adeguato sulla superficie dello schermo/specchio, ci troviamo pericolosamente esposti sull’abisso delle nostre doppie, o multiple, personalità. Forse in ciascuno di noi c’è un po’ di Norman Bates? 
Angelo Conforti