lunedì 12 dicembre 2011

Orson Welles - Citizen Kane

31/03/2011
CINEMA E PENSIERO
a cura di
ANGELO CONFORTI



Orson Welles: il genio del cinema moderno (Citizen Kane, 1941)

Settant’anni fa un ventiseienne già celebre come attore e regista teatrale (Time gli aveva dedicato una copertina nel maggio 1938) e come conduttore radiofonico (aveva seminato il panico in tutti gli Usa il 30 ottobre 1938, con la radiocronaca molto realistica dell’atterraggio dei marziani sulla Terra, ispirandosi al romanzo La guerra dei mondi di H. G. Wells), il 9 aprile 1941 vide l’uscita ufficiale del suo capolavoro cinematografico, Citizen Kane (Quarto potere in Italia), considerato anche il più bel film della storia del cinema.n>
Si tratta di Orson Welles (1915-1985), artista poliedrico e geniale, attore eccelso, un illusionista, come amava definirsi.
Così lo stesso Welles ha riassunto il proprio film: “Quarto potere racconta la storia dell'inchiesta fatta da un giornalista di nome Thompson per scoprire il senso delle ultime parole di Charles Foster Kane. Poiché il suo parere è che le ultime parole di un uomo devono spiegare la sua vita. Forse è vero. Lui non capirà mai cosa Kane volesse dire, ma il pubblico, invece, lo capisce. La sua inchiesta lo porta da cinque persone che conoscevano bene Kane, che lo amavano e lo odiavano. Gli raccontano cinque storie diverse, ognuna delle quali molto parziale, in modo che la verità su Kane possa essere dedotta soltanto - come d'altronde ogni verità su un individuo - dalla somma di tutto quello che è stato detto su di lui. Secondo alcuni Kane amava soltanto sua madre, secondo altri amava solo il suo giornale, solo la sua seconda moglie, solo se stesso. Forse amava tutte queste cose, forse non ne amava nessuna. Il pubblico è l'unico giudice. Kane era insieme egoista e disinteressato, contemporaneamente un idealista e un imbroglione, un uomo grandissimo e un uomo mediocre. Tutto dipende da chi ne parla. Non viene mai visto attraverso l'occhio obiettivo di un autore. Lo scopo del film risiede, d'altra parte, nel proporre un problema piuttosto che risolverlo” (Claudio M. Valentinetti, Orson Welles, Il Castoro, 1988).
Il cittadino Kane, che costruisce un grande impero editoriale, cercando di plasmare l’opinione pubblica e tentando inutilmente di diventare presidente degli Stati Uniti (uno scandalo sessuale nell’America puritana dell’epoca, molto diversa dall’Italia di oggi, affosserà la sua carriera politica) e infine muore in solitudine nella sua reggia, monumento allo sperpero, rimpiangendo l’infanzia perduta, è interpretato dal regista stesso in modo superbo, in tutte le età della sua vita, grazie anche ad un trucco perfetto.
Ciò che rende il film un’opera di altissimo livello strutturale e stilistico sono elementi di vario genere, che mettono in luce in modo eccelso la capacità dello sceneggiatore/regista/attore di far propria, in una grandiosa sintesi narrativa e visiva, sia la lezione dei grandi maestri delle origini, come Griffith, sia quella delle avanguardie sperimentali, come il surrealismo e l’espressionismo.
L’innovativa sceneggiatura, che violava tutti i codici hollywoodiani dell’epoca e fu premiata con l’Oscar nel 1942, prevede che la vita e la personalità del protagonista siano raccontati in flash-back da sei punti di vista diversi, quello ufficiale di un cinegiornale (ricostruito in perfetto stile da Welles) e quelli personali, rispettivamente, del tutore del patrimonio ereditato dal cittadino Kane quando era bambino, del caporedattore del suo giornale, dal suo più importante giornalista, della seconda moglie e, infine, del maggiordomo. Una molteplicità di sfaccettature che ripercorrono gli eventi in senso cronologico, ma destrutturano il personaggio in una notevole varietà di prospettive che non sempre si integrano in modo armonico.
L’altra grande invenzione, che spezza volutamente la perfezione della circolarità narrativa (la prima e l’ultima inquadratura sono uguali: il cartello “No trespassing” sul cancello del castello di Xanadu, metafora dell’impossibilità di penetrare davvero il mistero di un’esistenza) è il particolare dialogo che l’autore intrattiene direttamente con lo spettatore, unico depositario della rivelazione finale, che resta incomprensibile a tutti i personaggi e anche al giornalista che conduce l’inchiesta: l’ultima parola pronunciata da Kane in punto di morte è il nome dello slittino (Rosebud) con cui stava giocando nel cortile innevato, quando è stato strappato ai suoi giochi di bimbo e alla famiglia, per essere affidato, unico erede di un’immensa fortuna, a un tutore, lontano da casa. Una delle ultime immagini ci mostra la scritta poco prima che lo slittino bruci, insieme a tante altre cianfrusaglie inutilmente accumulate nelle innumerevoli stanze di Xanadu.
Ma ciò che forse più di ogni altra cosa segna il marchio visivo del film è l’accurata costruzione di moltissime inquadrature in piano-sequenza (rifiutando lo scontato campo-controcampo e la pedissequa segmentazione delle scene) e, soprattutto, con una prodigiosa profondità di campo, che tiene a fuoco contemporaneamente oggetti e personaggi vicinissimi e lontanissimi dall’obiettivo. Il grande direttore della fotografia Gregg Toland ottenne effetti eccezionali andando alla ricerca di obiettivi speciali e illuminando il set con luci molto potenti. Prospettiva rinascimentale centrale o laterale, inquadrature dal basso, per dare risalto ai personaggi, che si muovono spesso in “verticale”, per così dire, avanzando verso l’”occhio” della macchina da presa, o allontanandosi da essa, in ambienti vastissimi, uso espressionistico delle luci: questi sono alcuni dei segreti di questo capolavoro assoluto.
Il film di Welles è di una straordinaria modernità anche dal punto di vista tematico, nel mettere in questione tutti i “miti” contemporanei della libertà, della ricchezza, della felicità, della realizzazione di sé, del potere, del condizionamento dell’opinione pubblica, dell’amore, del possesso, dell’odio, del consumo sfrenato, e altri ancora.
Del resto tutto il cinema di Welles, che il British Film Institute ha proclamato il miglior regista di tutti i tempi, ha sempre cercato di indagare gli abissi della personalità umana, ponendo al centro personaggi complessi, controversi, ambigui e anche grandiosi, ma soprattutto in riferimento al loro lato oscuro.
Uomo di un eterno Rinascimento, gigante della modernità, in quest’epoca di deriva e disgregazione postmoderna è un punto di riferimento fondamentale per chi voglia confrontarsi apertamente con la vastità e la profondità del pensiero critico.
Angelo Conforti