sabato 10 dicembre 2011

Nicola Vacca su "Livorno"




POESIA CHE NON SALVA LA VITA

Sebastiano Aglieco ha ragione quando scrive nella prefazione a Livorno (L'Arcolaio, pagine 75, euro 11,50), l'ultimo libro di Mauro Germani, che "Non capisco questa vita", le parole di una canzone di Piero Ciampi, potrebbero costituire il sottofondo di questi versi in cui il poeta riporta in vita le inquietudini della città toscana che dette i natali a sua madre.
Leggendo questo libro mi sono venute in mente alcune bellissime parole di Fabrizio De André. Il cantautore genovese, parlando della morte, disse che non aveva paura della sua, ma di tutto quello che muore intorno. E aveva paura di tutto quello che non riusciva a capire. Nei pensieri evocati dal poeta, il disincanto è una cosa concreta che spezza il tempo in frammenti. Germani indossa il vestito del niente che la vita gli cuce addosso. Nel nulla che si spalanca come un abisso si avverte il bisogno di autenticità. In questa mancanza di senso la parola serve per dire chi siamo e chi non siamo veramente: "A quale vita interrotta, a quale passo / le strade e i portici brulicanti, / l'aria di sale, il mormorio dell'acqua? / A quale anima perduta, a quale domanda / le voci solitarie, le case in bilico / nella notte, le preghiere / spezzate dal tempo? / A quale fine / queste parole superstiti, / questo singhiozzo di terra e di nulla?".
Davanti al mondo che non c'è, che sopravvive grazie alle apparenze che governano le relazioni umane, il poeta è consapevole che la fine di tutto è a portata di mano. In "questo morire a frammenti" si respira "l'aria palpitante del nulla". A un passo dal vuoto la parola soccorre sul precipizio e prende per mano l'uomo. Dentro il quotidiano disfarsi dell'epoca, Germani scrive con una lingua bassa e vera il suo diario dei giorni difficili. Il non essere suscita nel poeta inquietanti domande davanti alle quali egli si pone in ascolto, tenendo sempre conto che le risposte forse non saranno esaustive per dare conto del catalogo fragile dell'esistenza, nella quale è impossibile vedere anche la mano di Dio: "Fra un gesto d'amore, fra un gesto e la terra. Sapesse Dio la storia di un bacio o di una parola sempre sconfitta, sempre perduta. Potessimo noi non essere qui, avere un cielo da raccontare come un pianto vero, e una voce sola, uno sguardo solo, senza questo amore sfigurato, quest'ombra inghiottita dal tempo...".L'inesistenza è fisicamente tangibile nei versi di Mauro Germani. La sua poesia non si discosta mai da  una corporeità di pensieri che prendono vita da una riflessione empirica sulla stanchezza della nostra umanità perduta. "Su questa mancanza fondativa,  - scrive Sebastiano Aglieco nella prefazione -  la poesia di Mauro Germani costruisce i suoi pieni e i suoi vuoti. Ma anche improvvise accensioni che illuminano l'attimo, e poi riconsegnano il senso al disinganno oscuro dell'origine, proprio ad evidenziare una dimensione precaria costantemente minacciata dal nulla e da un abissale senso d'irrealtà la richiesta di un'autenticità esistenziale impossibile da raggiungere...".
Come Fabrizio De André, Germani scrive per non capire, ma scrive perché è sicuro che soltanto credendo nella parola potrà essere possibile testimoniare l'esistenza imperfetta di noi uomini stretti nella morsa dell'incomunicabilità, il vero abisso nel quale siamo precipitati. "Poiché tutto finirà / o forse / tornerà una parola / una soltanto / nell'ultima voce".La precarietà è nelle cose, il poeta ce la racconta dal vero di una scrittura asciutta della sua esperienza di uomo tra gli uomini, con la consapevolezza che la poesia non salva la vita, ma puù essere utile a conservare le tracce che si lasciano in questo grande freddo interiore. Scrivere, scavando nell'abisso che non circonda, ma che ci abbraccia. Il rispetto per la parola è rispetto dell'uomo. Forse da questa missione qualcosa verrà fuori. O forse no.

(articolo pubblicato su Linea quotidiano il 10/03/2010)