martedì 27 dicembre 2011

Roman Polanski - Carnage

CINEMA E PENSIERO
a cura di
ANGELO CONFORTI


Roman Polanski: Carnage (2011) e lo spettacolo del nichilismo

Sono passati quasi 50 anni da quando nell’agosto del 1962 fu presentato a Venezia il primo lungometraggio di Roman Polański (Parigi, 18 agosto 1933), Il coltello nell’acqua (Nóż w wodzie), che fece una grande impressione e ricevette numerosi riconoscimenti di critica e pubblico. Il film, girato quasi interamente su una barca con tre soli personaggi principali, già anticipava molti dei temi e delle soluzioni narrative, drammaturgiche e stilistiche care al grande regista polacco, naturalizzato francese.
Ora dopo poco meno di mezzo secolo, all’apice di una carriera che si prospetta ancora piena di interessanti sorprese, con Carnage (2011) Polański ritrova una delle sue predilette situazioni claustrofobiche e firma un altro dei suoi tanti capolavori, dedicati allo smascheramento spietato dell’ipocrisia, della falsa coscienza, del formale perbenismo che caratterizza l’umanità occidentale e che, forse, mina fin nel profondo l’autenticità ontologica, relazionale ed esistenziale dell’essere umano in quanto tale.
Questa volta i protagonisti sono quattro, due coppie sposate, in un appartamento di Brooklyn, al cui interno si snoda l’intera vicenda in tempo reale, a parte un breve antefatto e una rapida conclusione, entrambi in esterni, ai giardini pubblici del quartiere. I quattro straordinari interpreti, Jodie Foster, Kate Winslet, John C. Reilly e Christoph Waltz, diretti magistralmente da Polański, danno vita a un gioco delle parti che si trasforma presto in un gioco al massacro (“carnage”, appunto; Il dio del massacro si intitola la pièce originale di Yasmina Reza, che ha collaborato alla riduzione cinematografica).
Incontratesi per trovare un accordo amichevole (il figlio dei Cowan – Waltz e Winslet – ha rotto due denti al figlio dei Longstreet – Reilly e Foster – colpendolo con un bastone, durante una lite ai giardinetti), le due coppie ben presto gettano la maschera e fanno emergere tutte le loro frustrazioni e la loro repressa carica aggressiva, in un continuo ribaltamento delle situazioni, che oppongono coppia a coppia, mariti a mogli, moglie a moglie, marito a marito e, infine, moglie e marito all’interno di ogni coppia.
Dialoghi, sceneggiatura e regia sono calibrati in modo perfetto e il continuo mutamento di prospettiva, con la funzionale dislocazione delle posizioni di ripresa, le panoramiche e le carrellate, e con il gioco degli specchi grazie al quale l’immagine stessa viene raddoppiata e moltiplicata, rende questa tragica commedia (o comica tragedia) da camera un capolavoro di tensione narrativa, di crescendo drammaturgico, di graffiante e beffarda ironia.
Polański è tornato ad ambientare una vicenda in un appartamento di New York, come aveva fatto nel suo primo film di americano immenso successo mondiale, Rosemary’s baby (1968), e, come allora, senza mai aver smesso di farlo, ha voluto raccontare il nichilismo occidentale, situandolo proprio nel centro simbolico dell’Occidente civilizzato (la Grande Mela), per farne emergere, dietro il velo dei presunti valori progressisti, le più brutali pulsioni inconsce. Ma se all’epoca, tra le due coppie protagoniste, una era succube dell’altra e la sventurata Rosemary invano tentava di opporsi al diabolico disegno di trasformarla nella madre del figlio di Satana, in Carnage tutti i protagonisti hanno da tempo venduto l’anima al diavolo (non solo l’avvocato Waltz, al soldo di una casa farmaceutica che fa profitti sulla salute dei clienti) e anche le due donne sarebbero forse disposte a concepire il figlio del demonio.
L’Occidente di Polański è ormai definitivamente preda delle proprie pulsioni autodistruttive. Ma il grande regista franco-polacco punta più in alto. Il suo film vuole rappresentare lo spettacolo di un nichilismo ontologico dell’essere umano, strutturalmente vittima di una volontà di potenza che lo sovrasta e che inutilmente cerca di nascondere dietro la facciata di illusorie buone maniere. Nella breve inquadratura finale i ragazzi tornano a giocare ai giardini pubblici e il criceto, cacciato di casa e abbandonato dal signor Longstreet, assapora la propria libertà, mentre i quattro “pacifici” adulti hanno raggiunto l’apice della loro inautenticità esistenziale e della loro nullità umana.

Angelo Conforti

martedì 13 dicembre 2011

Mauro Germani - Aforismi (2)



Quando si è malati, si è più veri. La malattia sorprende la nostra clandestinità.
Cerchiamo di ritornare, ma non sappiamo dove.
Noi abitiamo l’Occidente, questa terra del tramonto, del cammino che si inoltra nel buio; questa terra dell’addio, del passo straniero che va incontro alla notte; questa terra sospesa come un ponte sul nulla.
Forse bisognerebbe avere un unico pensiero e un’unica passione cui dedicare l’intera vita.
Un anonimo lettore sfoglia le pagine di un libro. Il suo volto è indistinguibile ed è solo circondato da un pallido alone. Enigmatici segni gli vengono innanzi e lo prendono. Che sta accadendo? Quale mondo lo chiama? E soprattutto chi c’era, chi è sparito con quelle parole ormai ineluttabili?
Forse la vera storia è un’altra. O meglio, non è solo quella dei grandi eventi di cui parlano i libri. E’ segreta, è quella delle nostre anime e dei nostri sogni, delle forze oscure dell’universo e dei morti. Ed è ben più terribile.
Pensare da molto tempo un sogno, trovare le parole in un volto.
Accade talvolta di avvertire l’angoscia di leggere: il testo diviene la cella di una prigione enorme da cui non potremo mai uscire e che coincide con l’universo.
La morte guarisce dalla malattia del tempo.
Dove sono io, la parola è già stata. Rimane un’eco lontana che mi prende l’anima ed io non riesco più a vivere, non posso che constatare il mio ritardo, riconoscere con dolore una perdita incolmabile.
Ci sono appuntamenti segreti a cui giungiamo troppo tardi. Ancora presi dall’affanno per la nostra corsa, riconosciamo improvvisamente il volto che da sempre avevamo cercato, la luce di quello sguardo che per lungo tempo era stata nei nostri sogni e ci aveva silenziosamente accompagnati. Ma la verità è che siamo stati vinti dal tempo, nessuno più si ricorda di noi, altri hanno preso il nostro posto, e non ci resta che constatare il nostro fallimento.
Chi è l’avversario della partita che stiamo giocando con sempre maggiore affanno? Ne avvertiamo l’oscura presenza, ma forse non esiste, e proprio per questo è ormai  invincibile.
Le infermiere che vengono ormai da lontano, silenziose. I morenti sentono le loro mani nella notte, si lasciano prendere i sogni. Nel bianco dei camici vedono ciò che non sono mai stati. E una rugiada invisibile inumidisce le piaghe. Una dolce frescura parla finalmente di addio. Soccorrere quando è tardi, quando il mondo diventa sempre più improbabile …  Che forse sia questo l’amore? Che lungo le corsie grigie (dove son testimoni fiochi lumi) non ci sia altro che verità? Che davvero non esista che un ospedale di confine, bianco e sospeso nella notte, ultimo, come parole dette in segreto?
Le parole d’un tempo, che tornano come fantasmi nell’ombra a dire tutta la nostra incompiutezza: perché il futuro sarà sempre questa impossibilità del passato, nient’altro. 
Com'è, dov'è l'altro volto che non conosciamo? L’altra vita che non viviamo, ma che ci possiede? L’altra verità che non sappiamo, ma che è questa nostra carne ferita, questo nostro sangue straniero?

Truffaut: il regista che amava le donne

23/11/2011
CINEMA E PENSIERO
a cura di
ANGELO CONFORTI




François Truffaut: il regista che amava le donne
 
 Una delle più grandi rivoluzioni nella storia del cinema è rappresentata dalla nouvelle vague francese che rinnovò completamente temi, linguaggio, tecnica, ambientazione, stili di regia e di recitazione. Secondo alcuni critici e storici della settima arte c’è un cinema prima di Godard e un cinema dopo Godard, autore-simbolo delle radicali innovazioni introdotte da questa fondamentale corrente artistica.
Ma non si può dimenticare che il soggetto del primo “rivoluzionario” film di Godard, Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle, 1960), è opera di François Truffaut (1932-1984) e che il vero atto di nascita della nouvelle vague, nel 1959, è costituito proprio dal suo film I quattrocento colpi (Les quatre cents coups), la vicenda in gran parte autobiografica di un bambino difficile che la madre fa chiudere in riformatorio. Nasce così la figura di Antoine Doinel, vero e proprio alter ego del regista parigino che ne farà il protagonista di altre quattro storie cinematografiche (una delle quali è un episodio di un film collettivo).
Jean-Pierre Léaud ne è l’interprete e l’attore diventa una delle maschere predilette da Truffaut, che con lui stabilisce un rapporto di complicità e di identificazione.
Uno dei film-chiave, spesso sottovalutato ma fondamentale da riscoprire, per capire la poetica complessa e sfaccettata di questo grande autore, è senza dubbio Baci rubati (Baisérs volés, 1968). La nouvelle vague, come movimento, è a una svolta significativa e ognuno dei suoi esponenti prenderà la propria strada. Mentre Parigi brucia, Truffaut sceglie il percorso più inatteso ma più personale, raccontando la difficile maturazione del suo Antoine Doinel, congedato dall’esercito per inettitudine e alla ricerca di stabilità nel lavoro e nei sentimenti, soprattutto di quel fondamentale affetto femminile che gli è mancato nell’infanzia ribelle e incompresa e che non ha trovato nell’adolescenza inquieta (episodio Antoine e Colette, 1964). Lo stile di Truffaut è raffinato ed elegante e la recitazione dell’inetto Léaud/Doinel è molto efficace. È un personagggio che inciampa nelle cose, che ne combina di tutti i colori, che cambia diversi lavori senza realizzare nulla di buono. È una specie di Fantozzi, ma con tutta l’eleganza francese e la gamma di sfumature emotive, tipica del cinema di Truffaut, qui mescolata alla lieve ironia che attraversa tutta la vicenda: il senso del tempo che fugge, la malinconia, la spensieratezza del vivere giovanile, il fascino femminile e la nostalgia degli amori perduti (di cui parla la splendida canzone d’apertura e chiusura, Que reste-t-il de nos amour? di Charles Trenet).
L’universo femminile, soprattutto, è il costante punto di riferimento di quel Doinel che è lo stesso Truffaut, regista che ha amato le donne come pochi altri, rappresentandole nelle più diverse forme: capaci di amare fino alla follia come Adele H.(1975); o di nutrire un odio assoluto e vendicativo come La sposa in nero (La mariée était en noir, 1967; con una straordinaria Jeanne Moreau); accecate dalla gelosia fino ad uccidere il marito, come la moglie tradita de La calda amante (La peau douce - stupendo titolo originale, 1964), dotate di un fascino irresistibile e perverso, come la protagonista de La mia droga si chiama Julie (La sirène du Mississipi - altro bellissimo titolo, film del1969, con una meravigliosa Catherine Deneuve) e, per non continuare all’infinito (ma, certo, si potrebbe proseguire ancora a lungo), la trasgressiva e scandalosa Jeanne Moreau di Jules et Jim (1962) che ama due uomini e divide la vita con loro.
Quasi il simmetrico rovescio di quest’opera fortemente innovativa nei temi e nel linguaggio, Truffaut l’ha tratto di nuovo da un romanzo di Henri-Pierre Roché e l’ha girato nel 1971, con Jean-Pierre Léaud nella parte di un parigino del primo Novecento che si innamora di due sorelle inglesi (Le due inglesi, Les deux anglaises et le continent). Un capolavoro, riscoperto tardi da una critica miope, ancora un film controcorrente negli anni della rivoluzione sessuale e della contestazione, di certo la più intensa e profonda delle sue opere, in cui la proustiana ricerca del tempo perduto, la nostalgia degli amori adolescenziali, il fremito dell’intimità profonda con un altro essere, la malinconia della separazione, il senso della caducità dei rapporti umani, sono tutti elementi che si fondono in una perfetta sintesi, in cui la dolcezza del lirismo romantico e la sincerità esplicita delle situazioni e dei dialoghi si incontrano senza contraddirsi. L’altissima qualità estetica del film è costituita da molti fattori stilistici e formali, tra cui val la pena di ricordare l’eccelsa direzione della fotografia da parte del grande Néstor Almendros.
Misteriose ed enigmatiche, forti e fragili allo stesso tempo, adorabili e irraggiungibili e poi perdute per sempre, Ann e Muriel, le due sorelle, sono anch’esse due ritratti femminili degni di una galleria ricchissima che ci ha lasciato questo regista innamorato delle donne proprio come l’altro suo alter ego, il protagonista de L’uomo che amava le donne (L’homme qui aimait les femmes, 1977).
Angelo Conforti

Clint Eastwood: il mondo imperfetto

09/10/2011

CINEMA E PENSIERO
a cura di
ANGELO CONFORTI


Clint Eastwood: il mondo imperfetto, ovvero il senso tragico e la sostanza etica dell’esistenza

Clinton Eastwood Jr., nato a San Francisco il 31 maggio 1930 è oggi uno dei più importanti autori cinematografici del panorama americano e mondiale.
Ha esordito come regista nel 1971 e diretto 33 film, dopo un folgorante esordio come attore protagonista nella cosiddetta “trilogia del dollaro” di Sergio Leone e una progressiva crescita professionale sotto la direzione di Don Siegel in altre memorabili opere.
Dai suoi due grandi maestri ha imparato molto, ma ha saputo sviluppare un proprio stile personale e una visione del mondo articolata, complessa e aperta, tutt’altro che dogmatica.
Clint Eastwood si è dimostrato un grande narratore di storie attraverso il linguaggio del cinema, avendo saputo mettere a punto uno stile classico e nel contempo innovativo e dinamico, nella costruzione delle immagini e delle sequenze. Basta leggere alcune opere letterarie da cui sono tratti i suoi film per rendersi subito conto della sua abilità nel far emergere con straordinaria efficacia il nucleo drammaturgico della vicenda.
Uno dei temi centrali (intorno a cui ne ruotano molti altri) della sua ricca filmografia è sicuramente quello della giustizia. Non si tratta, però, della giustizia come questione determinata, specifica, giuridica e terrena. Eastwood, che anche soltanto come attore ha recitato quasi sempre la parte del “giustiziere”, sia con Leone che con Siegel, ha interiorizzato e rielaborato a modo suo questo grande tema, proiettandolo su un piano etico, che riguarda l’essenza stessa della giustizia e la questione delle scelte di fronte alle quali sono posti i personaggi della vicenda narrata. I suoi western e i suoi noir hanno saputo proseguire su questa direttrice tematica con un cifra personale notevole, come accade per esempio ne Lo straniero senza nome (1973) e Il cavaliere pallido (1985), due grandiosi western crepuscolari, o in Potere assoluto (1996).
La grandezza di Eastwood sta nel saper concentrare, con eccezionale capacità drammaturgica ed essenzialità stilistica, i rapporti tra i personaggi e il corso degli eventi intorno al problema etico centrale e alla scelta, che in nome della Giustizia, i personaggi sono chiamati a compiere. Scelta spesso drammatica, poiché Eastwood ha chiarissimo il senso tragico dell’esistenza e sa scavare come pochi negli stati d’animo dei personaggi, confezionando film d’azione che sono nel contempo raffinate analisi psicologiche.
Sarebbe piuttosto complicato analizzare sotto questa luce i suoi numerosi film, ma ci sono esempi lampanti in opere “romantiche”, apparentemente lontane dal genio eastwoodiano, come I ponti di Madison County (1995), in cui la protagonista (Meryl Streep) deve compiere una scelta etica non certo facile, o in opere assolutamente tragiche come Million Dollar Baby (2004), in cui la sostanza etica della vicenda ruota intorno al problema della morte clinica e dell’accanimento terapeutico.
Gli esempi sarebbero davvero innumerevoli, ma possiamo considerare due film davvero paradigmatici per certi aspetti, sia pure in modo opposto e complementare.
Uno è Gli spietati (1992), premiato con l’Oscar, western disincantato, durissimo e bellissimo, in cui la questione della scelta etica è posta nel modo più tragico possibile, poiché il centro filosofico del film consiste nel conflitto tra la giustizia e la legge, tra un ex pistolero ora “giustiziere” e vendicatore, in nome di un principio morale, ed uno sceriffo, che della legge umana e “positiva” è il rappresentante.
L’altro è Un mondo perfetto (1993), titolo bellissimo, che può davvero riassumere icasticamente, nel suo rovescio, la weltanschauung eastwoodiana e che calza benissimo, per antitesi, ad un film in cui la tragedia si compie ineluttabilmente, in modo illogico, irrazionale e folle: la somma ingiustizia si attua proprio ad opera dei rappresentanti della legge, nonostante gli sforzi compiuti da un ispettore (Eastwood) e da una psicologa criminale (Laura Dern) per evitare lo scontro armato con un delinquente (Kevin Costner) che le stesse istituzioni penali hanno spinto sulla strada del crimine, invece di aiutarlo, quando ancora era minorenne, a riscattarsi da un ambiente familiare degradato. Il mondo perfetto, insomma, non esiste.
Sempre attento alle sfumature psicologiche delle vicende, a indagare l’anima umana, sia pure da laico, ma non certo da materialista, ora Eastwood si è spinto ad affontare il tema dell’aldilà con il suo ultimo film, Hereafter (2010), in cui conferma, non solo la sua consueta grandezza di narratore per immagini in movimento, ma altresì il suo pragmatismo privo di pregiudizi e aperto al dubbio, anche e soprattutto su argomenti così delicati e interrogativi tanto inquietanti, che del resto già aveva sfiorato con un altro stupendo film, Mezzanotte nel giardino del bene e del male (1997).
Attore in quasi tutte le sue realizzazioni, Eastwood è anche compositore di musica e spesso produttore dei propri lavori con la compagnia che ha fondato nel 1968, la Malpaso. 
Angelo Conforti

Mauro Germani - Aforismi

04/10/2011

  



Si dice che nel deserto si senta maggiormente la presenza della morte. Lì è il poeta.


L’arte vera è abissale, ci interroga lungo i bordi del silenzio, ci fa comprendere che noi non bastiamo a noi stessi.


Il buio ci rivela ciò che non riusciamo mai a cogliere, ma che sentiamo profondamente nostro.


Viviamo tutti in una zona di confine, un luogo provvisorio ed incerto, dove nulla è ben definito e i nostri corpi, i nostri volti si cercano nella penombra.


La poesia deriva non da ciò che si ha, ma da ciò che ci manca.


Chi non sa vivere sceglie la scrittura per accorgersi poi troppo tardi che anche quest’ultima è un fallimento.


Mallarmè scrisse che il mondo esiste per giustificare un libro. Ma quale libro potrà mai giustificare il mondo?


Che se ne fa questo mondo dello scandalo della Poesia?


Artaud scrisse che la poesia parte molto di più dalla necessità di parola che dalla parola già formata. La scrittura poetica è da intendersi dunque come compimento di ciò che non si può compiere.


Conosco bene la solitudine e la tristezza di chi scrive, a capo chino, sotto il lume tenue di una lampada … E’ come il custode di un segreto dimenticato, un usciere senza divisa, un funambolo innamorato dell’impossibile …


Ogni sguardo è destino.


I disegni delle vene, il loro pulsare segreto, una strana dolcezza … E’ la fragilità dell’esistenza, qualcosa che al solo pensiero ci fa venir meno.


La ricerca del piacere è sempre una ricerca da disperati.


Ciò che ci capita è sempre la conferma di qualcosa a cui non vogliamo o non possiamo credere fino in fondo.


C’è nel dolore una voce remota e notturna, un’anima persa e lacerata che s’attacca desolata al corpo.


La scrittura, come afferma Jabès, non è mai una vittoria sul nulla, ma al contrario un’esplorazione del nulla attraverso il vocabolo.


A chi o a che cosa apparteniamo? Chi abbiamo abbandonato o da chi siamo stati abbandonati?


Si scrive tra l’orrore e l’estasi.


C’è un mistero del corpo che nessuna scienza potrà mai svelare.


 Molteplici sono le illusioni prodotte dall’Io, tra cui l’Io stesso.


Oh, sofferenza della non identità, malattia mortale, rantolo dell’anima senza nome!


Il poeta è un abitatore di rovine.


Si può amare un corpo per conoscerne l’anima segreta? La luce degli occhi, le sfumature della pelle, i disegni azzurri e delicati delle vene dove ci portano? Quasi mai ci attende ciò che si era immaginato. In fondo in fondo non troviamo che la vertigine, il riflesso del nostro smarrimento o di un insondabile mistero.


Non usciremo mai dal nostro oblio. Incapaci di ricordare chi siamo veramente, vaghiamo come sonnambuli nella notte del mondo.


Pare che oggi il pensiero sia in disuso. Si preferisce un’incoscienza continua e quotidiana, un’abulia della mente e dell’anima, uno stato di passività che rasenta l’idiozia.


Chi è senza soccorso, chi precipita nella notte del mondo.
Chi cerca e poi trova la propria agonia fra le stelle e la polvere, laggiù, dove non c’è più volto, più niente …


C’è nella rinuncia sempre qualcosa di grande, che affascina e che spaventa.


I vivi sono – rispetto ai morti – un’esigua minoranza, ma fingono di non saperlo.


Scrivere perdutamente, scrivere per perdersi, perdersi per scrivere. O più semplicemente: perdere.


Commettiamo sempre lo stesso errore, con infinite, minime variazioni.


Noi siamo il nostro sangue. Non si può sfuggire alla sua verità. Quando scorre, capiamo che porta con sé qualcosa di tremendo e di misterioso: è l’effusione dell’anima, ma anche il grido muto della terra, l’ineluttabilità del nostro destino.


Se tutto è superfluo, noi e il mondo e il mistero di entrambi, come ebbe a scrivere Pessoa, allora il nulla assume un’importanza davvero grande e sconvolgente. Solo l’impossibile potrebbe comprenderlo e la verità sarebbe per sempre pura e lontana, irraggiungibile come una stella nella notte della nostra assenza.


Siamo tutti soldati senza una patria, né un esercito per cui combattere.


Questa terra che crediamo nostra. Questa terra a cui tornerà il nostro corpo. Questo granello di polvere. Questa polvere.


C’è una verità che la parola poetica sa, ma non riesce mai a dire completamente.


Ognuno scrive il proprio silenzio. 

  

Gianfranco Fabbri su "Terra estrema"




Terra estrema, il nuovo libro di Mauro Germani, applica al percorso poetico dell’autore un giro di vite rimarchevole; tanto rimarchevole da poter definire questa svolta stilistica come una stagione nuova, i cui risultati maturi potranno vedersi appieno in un prossimo futuro. È l’aggettivazione la prima caratteristica che salta all’evidenza; una funzione cromatica, intensa, ritmica e molto spesso in fondo al verso, al fine di dare alla timbrica un passo inedito. Il poeta infatti desidera creare un cospicuo magazzino di oggetti, -materiali e immateriali- tanto numeroso da poter fornire al lettore i “ferri del mestiere”. Germani, sotto questo profilo, non si pone limiti; getta pennellate di notevole policromia; reitera, scialando, nomi e nomi con insistenza, facendosi in tal caso beffe di quei critici che sempre pongono le loro raccomandazioni di prudenza aggettivale. Nonostante i timori di incorrere in una critica di questo tipo, il nostro poeta è andato avanti con il suo progetto, riuscendo a inanellare passi memorabili, sul fronte della trepidazione coloristica che la tematica richiedeva.
Sempre a livello di stile, c’è da notare l’uso fitto dell’anafora, che promette l’effetto di un martellamento in capo di verso, utile ad entrare negli spazi concavi di un riparo, oppure, al contrario, opportuno a spiegare gli spigoli appuntiti di una affermazione polemica. Il dettato, a mano a mano che si procede in avanti nella lettura, segue o insegue la “nota solenne” (ma non querula) dell’intonazione profetica –sibillina e divinatoria-. Germani dà l’impressione di chiedere al proprio magazzino lessicale di muoversi, di agire, di uscire nei quartieri della Terra estrema, per conferire la bonifica di questa regione impervia. Un’indagine ha potuto appurare la frequenza delle ripetizioni; alle pagine 40-41-42-43 si può contare fino a sei volte la ripetizione della parola “universo” (e affini). Altrettanto fitta è apparsa la frequenza del sostantivo “corpo” , così come del resto si può dire del gruppo di termini “Flutto, fiato, gemito, respiro, tremore ecc…”). Una sola volta è stata pronunciata la parola “bellezza” (credo, per un senso di paura, ché al solo pronunciamento il lettore avrebbe potuto rischiare la cecità).
Ma passiamo alla tematica.
Germani introduce, anche se in modo graduale, la cifra della raccolta, ovvero l’ombrosità e la ritrosia del dire senza dire. Si ritorna alla dinamica della reticenza attraverso un uso sovrabbondante di frasi periferiche, le quali hanno lo scopo di stornare il linguaggio dal fulcro vero dell’opinione. Salta in superficie l’uso di una scrittura semi-automatica / semi-lucida, ottenuta in virtù della produzione di un “rumore” di base, utile anch’esso a produrre ambigua reticenza, anziché mirare direttamente alla “nuda” proprietà dell’idea.
Il corpo è certamente la navicella spaziale con cui viaggiare ai confini della stessa entità corporea (la Terra estrema). 
Il corpo viene osservato dal punto di vista della propria ombra.
Si ha quindi modo di toccare con mano l’orografia della montuosità, l’accoglienza delle concavità ove svernare la propria formazione di crescita.
I soggetti poetici contraggono fibrillazioni e aritmie, le quali passano dall’Io al Noi, al Loro, con un senso di fame che non transige. Il corpo viene rappresentato dagli organi fisiologici (gli occhi, le labbra, la pelle o quant’altro). Ma del corpo, della sua presa di coscienza biologica, non c’è eternità; esiste anzi la concreta possibilità che lo stesso corpo appaia come un mezzo per poter raggiungere l’ottundimento, l’estasi dell’eros così contiguo al senso fatale della morte.

Quale ignoto sangue,
quale corpo
ai confini del corpo?

(Ai più, dopo la lettura di un tale frammento, verrebbe forse da chiedersi: si parla qui del gemello mai nato?)

Ma l’uomo è segno di infinita segretezza; come un buco nero dello spazio che conservi -già nel suo più profondo infinito- la lesione primordiale.

… “nella notte cieca
che sprofonda,
nella piaga d’anima
aperta e nera,
più giù,
dove tutto si cerca
e sempre si perde”


Tale senso è ben presente anche nelle ultime due sezioni del libro: “Voci” e “Terra estrema”. Nella prima di queste due parti si alza una nota solenne, accorata, che dichiara il proprio nome (ora il cielo, ora la neve, ora altri personaggi di questa dimensione, situati a metà strada fra la Terra ordinaria e il perfetto oltretomba). Si giunge così ad un trasferimento dell’ Io poetico: dall’imperio verbale (il “non” che proibisce) al “Lui” - “Lei” (che insieme sono l’umanità) per una cacciata dal paradiso, terrestre e infernale.

È la temperie decisiva, con il suo varcare i confini del corpo, che assesta e consolida un regime definitivo, determinando l’anchilosamento della speranza.


lunedì 12 dicembre 2011

Rinaldo Caddeo recensisce "Terra estrema"

08/04/2011






MAURO GERMANI - TERRA ESTREMA  (Interventi di Marco Ercolani e Fabio Botto) - EDITRICE L'ARCOLAIO 2011


Come scrive giustamente Marco Ercolani nella prefazione: «Mauro Germani, in Terra estrema, s’inoltra nell’abisso del dolore e affronta, in modo lirico ma impietoso, il tema “perturbante” del corpo.» (p.7). Basti leggere l’indice, che riporta i capoversi, per capire, non solo su di un piano statistico, l’insistenza straniante e straziante, con i suoi annessi e connessi (il sangue o la carne per esempio), del corpo: «Quale ignoto sangue», «Là dove il corpo appare», «Non sappiamo il corpo», «Dall’acqua e dal sangue», «Non so quale risorta carne», «L’avessi mai capito il corpo», «Forse due corpi, una luce», «Col corpo addosso vanno», «È qualcuno il mio corpo», «Amputato corpo», «Conosco tutti i miei corpi sepolti», «Ci sono macchie di sangue». Sono incipt che la dicono lunga e già portano in sé quella dolorosa elegia che si snoda nelle stazioni di una passione di cui parla Ercolani.
Vorrei soffermarmi su di una queste stazioni che, a mio parere, merita un’attenzione particolare. Mi riferisco alla breve ma densa sezione Voci dove l’icastica affabulazione di Germani assume un nuovo angolo visuale e vocale, perlustrando un diverso territorio. Qui sono gli elementi aristotelici a prendere la parola: la Terra, il Vento, il Fuoco, ma anche la Neve, la Notte, il Cielo. E parlano in prima persona: la tonalità oracolare, perplessa o confidenziale, si fonde e fa un tutt’uno con la souffrance di una condizione esistenziale che valica i limiti acuminati dell’io e delinea, con codeste stranite identificazioni, orizzonti più incalcolabili, scenari più dilatati. I significanti e persino gli etimi delle parole, con i paesaggi evocati dai loro sensi, riconvocano e riformulano le cose, ne seguono i confini e i movimenti, con la vastità romantica, a volte tragica, a volte quasi fiabesca, sempre intessute del dramma del loro mobile, metamorfico significato. Gli ingredienti dell’imagerie germaniana (ombremacchievenesognideliri, i temi dell’esilio o del destino) qui si dispongono intorno a una calamita che li circonda e se ne fa circondare con linee di forza che suggeriscono simbolizzazioni sorprendenti. La poetica della manque di Germani qui esperimenta un nuovo centro di gravità che emette, sasso gettato sulla calma superficie di un lago, una concatenazione di onde concentriche: «Sapessi dove inizio e dove finisco, dice il Cielo, qual è il mio corpo immenso, io che vivo solo le altezze, i disegni delle nuvole, il canto silenzioso delle stelle o quello infuocato del sole. Non so chi sono, come cambio, come sarò, non ho memoria, e ogni giorno dimentico la mia vita. Da sempre ignoro il destino che m’accompagna.Tutto avviene senza di me e senza di voi che credete alla mia patria inesistente, mia stessa illusione, mia potenza e mio nulla, come queste parole che ora vi confesso e che nessuno potrà sentire…» (p.74). È culmine questo ultra-romantico (oltre e oltre a Leopardi, a Novalis, a Buzzati…) di paradosso e di estraneazione, la voce senza voce che dice un corpo immenso senza corpo e senza limiti nei corporei limiti della parola, spiega l’indefinito con una sequela di definizioni, la memorabilità con l’oblio, l’appartenenza al massimo della potenza con una sconfinata inappartenenza.
Tematiche e forme che ritroviamo in tutta la sezione, modellate da empatica e struggente coerenza, modulate, ad esempio, con silente e luminosa delicatezza dal «racconto bianco» della Neve o con vibrato e vibrante accento dalla protesta contro l’uomo degli Animali. Grido di protestatio e commiseratio insieme: «Qual è, invece, la vostra ferita, il vostro continuo affanno?
Oh, uomini illusi d’esistenza, folli sovrani senza regno, di che cosa vi credete padroni?
Nessuna ragione, nessun potere, nessun dio vi ha mai salvati e vi salverà, poveri fratelli infelici, povere anime perse nel buio…» (p.77). E chi, se non gli Animali, avrebbe potuto rivolgerlo a noi con maggiore credibilità?

 Rinaldo Caddeo  


Orson Welles - Citizen Kane

31/03/2011
CINEMA E PENSIERO
a cura di
ANGELO CONFORTI



Orson Welles: il genio del cinema moderno (Citizen Kane, 1941)

Settant’anni fa un ventiseienne già celebre come attore e regista teatrale (Time gli aveva dedicato una copertina nel maggio 1938) e come conduttore radiofonico (aveva seminato il panico in tutti gli Usa il 30 ottobre 1938, con la radiocronaca molto realistica dell’atterraggio dei marziani sulla Terra, ispirandosi al romanzo La guerra dei mondi di H. G. Wells), il 9 aprile 1941 vide l’uscita ufficiale del suo capolavoro cinematografico, Citizen Kane (Quarto potere in Italia), considerato anche il più bel film della storia del cinema.n>
Si tratta di Orson Welles (1915-1985), artista poliedrico e geniale, attore eccelso, un illusionista, come amava definirsi.
Così lo stesso Welles ha riassunto il proprio film: “Quarto potere racconta la storia dell'inchiesta fatta da un giornalista di nome Thompson per scoprire il senso delle ultime parole di Charles Foster Kane. Poiché il suo parere è che le ultime parole di un uomo devono spiegare la sua vita. Forse è vero. Lui non capirà mai cosa Kane volesse dire, ma il pubblico, invece, lo capisce. La sua inchiesta lo porta da cinque persone che conoscevano bene Kane, che lo amavano e lo odiavano. Gli raccontano cinque storie diverse, ognuna delle quali molto parziale, in modo che la verità su Kane possa essere dedotta soltanto - come d'altronde ogni verità su un individuo - dalla somma di tutto quello che è stato detto su di lui. Secondo alcuni Kane amava soltanto sua madre, secondo altri amava solo il suo giornale, solo la sua seconda moglie, solo se stesso. Forse amava tutte queste cose, forse non ne amava nessuna. Il pubblico è l'unico giudice. Kane era insieme egoista e disinteressato, contemporaneamente un idealista e un imbroglione, un uomo grandissimo e un uomo mediocre. Tutto dipende da chi ne parla. Non viene mai visto attraverso l'occhio obiettivo di un autore. Lo scopo del film risiede, d'altra parte, nel proporre un problema piuttosto che risolverlo” (Claudio M. Valentinetti, Orson Welles, Il Castoro, 1988).
Il cittadino Kane, che costruisce un grande impero editoriale, cercando di plasmare l’opinione pubblica e tentando inutilmente di diventare presidente degli Stati Uniti (uno scandalo sessuale nell’America puritana dell’epoca, molto diversa dall’Italia di oggi, affosserà la sua carriera politica) e infine muore in solitudine nella sua reggia, monumento allo sperpero, rimpiangendo l’infanzia perduta, è interpretato dal regista stesso in modo superbo, in tutte le età della sua vita, grazie anche ad un trucco perfetto.
Ciò che rende il film un’opera di altissimo livello strutturale e stilistico sono elementi di vario genere, che mettono in luce in modo eccelso la capacità dello sceneggiatore/regista/attore di far propria, in una grandiosa sintesi narrativa e visiva, sia la lezione dei grandi maestri delle origini, come Griffith, sia quella delle avanguardie sperimentali, come il surrealismo e l’espressionismo.
L’innovativa sceneggiatura, che violava tutti i codici hollywoodiani dell’epoca e fu premiata con l’Oscar nel 1942, prevede che la vita e la personalità del protagonista siano raccontati in flash-back da sei punti di vista diversi, quello ufficiale di un cinegiornale (ricostruito in perfetto stile da Welles) e quelli personali, rispettivamente, del tutore del patrimonio ereditato dal cittadino Kane quando era bambino, del caporedattore del suo giornale, dal suo più importante giornalista, della seconda moglie e, infine, del maggiordomo. Una molteplicità di sfaccettature che ripercorrono gli eventi in senso cronologico, ma destrutturano il personaggio in una notevole varietà di prospettive che non sempre si integrano in modo armonico.
L’altra grande invenzione, che spezza volutamente la perfezione della circolarità narrativa (la prima e l’ultima inquadratura sono uguali: il cartello “No trespassing” sul cancello del castello di Xanadu, metafora dell’impossibilità di penetrare davvero il mistero di un’esistenza) è il particolare dialogo che l’autore intrattiene direttamente con lo spettatore, unico depositario della rivelazione finale, che resta incomprensibile a tutti i personaggi e anche al giornalista che conduce l’inchiesta: l’ultima parola pronunciata da Kane in punto di morte è il nome dello slittino (Rosebud) con cui stava giocando nel cortile innevato, quando è stato strappato ai suoi giochi di bimbo e alla famiglia, per essere affidato, unico erede di un’immensa fortuna, a un tutore, lontano da casa. Una delle ultime immagini ci mostra la scritta poco prima che lo slittino bruci, insieme a tante altre cianfrusaglie inutilmente accumulate nelle innumerevoli stanze di Xanadu.
Ma ciò che forse più di ogni altra cosa segna il marchio visivo del film è l’accurata costruzione di moltissime inquadrature in piano-sequenza (rifiutando lo scontato campo-controcampo e la pedissequa segmentazione delle scene) e, soprattutto, con una prodigiosa profondità di campo, che tiene a fuoco contemporaneamente oggetti e personaggi vicinissimi e lontanissimi dall’obiettivo. Il grande direttore della fotografia Gregg Toland ottenne effetti eccezionali andando alla ricerca di obiettivi speciali e illuminando il set con luci molto potenti. Prospettiva rinascimentale centrale o laterale, inquadrature dal basso, per dare risalto ai personaggi, che si muovono spesso in “verticale”, per così dire, avanzando verso l’”occhio” della macchina da presa, o allontanandosi da essa, in ambienti vastissimi, uso espressionistico delle luci: questi sono alcuni dei segreti di questo capolavoro assoluto.
Il film di Welles è di una straordinaria modernità anche dal punto di vista tematico, nel mettere in questione tutti i “miti” contemporanei della libertà, della ricchezza, della felicità, della realizzazione di sé, del potere, del condizionamento dell’opinione pubblica, dell’amore, del possesso, dell’odio, del consumo sfrenato, e altri ancora.
Del resto tutto il cinema di Welles, che il British Film Institute ha proclamato il miglior regista di tutti i tempi, ha sempre cercato di indagare gli abissi della personalità umana, ponendo al centro personaggi complessi, controversi, ambigui e anche grandiosi, ma soprattutto in riferimento al loro lato oscuro.
Uomo di un eterno Rinascimento, gigante della modernità, in quest’epoca di deriva e disgregazione postmoderna è un punto di riferimento fondamentale per chi voglia confrontarsi apertamente con la vastità e la profondità del pensiero critico.
Angelo Conforti 

La scrittura di Dino Buzzati






A proposito della presunta "facilità" della scrittura di Dino Buzzati,  considerata da alcuni priva di un’autentica ricerca, vale la pena fare riferimento a quanto ebbe modo di scrivere Andrea Zanzotto nel 1980, in occasione del Convegno che si tenne sullo scrittore bellunese nel volume Dino Buzzati, a cura di Alvise Fontanella, Olschki Editore, 1982. 
Zanzotto, che non esita a dichiarare di avere vissuto e di continuare a vivere “il mito di Buzzati”, afferma che è possibile riscontrare in Buzzati una “bipolarità”, tra una scrittura tersa e decifrabile, ovvero “il buon abito grigio dello stile da giornalista”, e quella più propriamente letteraria, caratterizzata anche da una sperimentazione linguistica: lo scrittore, infatti, pare collocarsi  “in questa pendolarità e oscillazione tra una linearità che corrisponde poi anche all’idea di un dovere […] e l’ineluttabile istanza dell’ambiguità, dell’imprendibilità che è intrinseca alla lingua stessa tanto più se si pone in attivo confronto con espressioni extralinguistiche, specie figurative”. E’ chiaro che qui Zanzotto si riferisce non solo all’attività pittorica di Buzzati, ma anche ad opere sicuramente “anomale” come Poema a fumetti (1969) e I miracoli di Val Morel (1971), in cui è presente da un lato una forte contaminazione tra scrittura e pittura, e dall’altro un’alternanza singolare fra toni alti e bassi, tra momenti letterari e talvolta lirici, ed espressioni popolari e gergali, tra poesia e fumetto, tra gioco ironico, fantasia e folklore.
Al riguardo, si pensi anche a Un amore (1963), romanzo che sul piano del linguaggio si espone volutamente al rischio di cadute, anzi pare volerle esibire, per meglio esprimere lo smarrimento del protagonista: si vedano le pagine di indiretto libero, senza punteggiatura, e l’uso di un lessico ripetitivo, quasi piatto, con improvvise impennate liriche ed immagini inconsuete. Non c’è dunque sciatteria linguistica, come qualcuno ha affermato, ma una precisa motivazione stilistica, un preciso impianto, che conferisce al libro una forza straordinaria, basata soprattutto sulla dissonanza.
Zanzotto giustamente parla anche della produzione poetica di Buzzati e cita Palazzeschi, considerando le poesie de Il capitano Pic (Neri Pozza, 1965) “una delle poche riuscite di un improbabile ‘surrealismo italiano’ rivisitato”, e conclude affermando che "la sfida di Buzzati ha la continuità e la tenacia eleganti e dissimulate che sono proprie del grande milite".
Non si può non citare, poi, uno studio importante e approfondito come Il sudario delle caligini (Leo S. Olschki Editore), che Nella Giannetto, la compianta presidente dell’Associazione Buzzati, dedicò nel 1996 all’opera dello scrittore. In particolare, in un capitolo del suddetto volume riguardante i Sessanta racconti, la Giannetto prende in esame la sintassi, il lessico, il livello retorico, gli espressionismi linguistici, le polisemie presenti nella lingua buzzatiana. Ad un certo punto afferma che nella scrittura di Buzzati vi è un’esigenza precisa, “quella del ritmo, della musicalità”, tanto che “nei Sessanta racconti capita persino di incontrare, a chiusura di un periodo o di una frase, dei veri e propri endecasillabi”, ma lo scrittore “ha una notevole capacità di dissimulare i suoi ‘scarti’, facendoli scivolare quasi inosservati fra le pieghe del testo: così clausola ritmica e raffinatezze retoriche, complice magari un vocabolo ‘basso’ […] sfuggono al lettore medio”.
Interessante, poi, l’analisi della punteggiatura, sempre molto particolare in Buzzati (ad esempio l’omissione del punto esclamativo o l’uso inconsueto della parentesi) e lo studio davvero minuzioso e attento della sintassi, che evidenzia la costruzione dei periodi con il gerundio, dove la principale è in prima posizione e la subordinata implicita in seconda, oppure l’uso dei participi passati ad inizio periodo, o ancora la presenza di anacoluti. A conclusione del capitolo, Nella Giannetto sostiene che se è vero che un racconto buzzatiano si distingue per alcune costanti tematiche, è altrettanto vero che “molto spesso è possibile riconoscere una pagina di Buzzati anche solo dall’atteggiarsi della sua sintassi, del suo lessico, delle sue scelte retorico-stilistiche”.
Se si legge attentamente l’opera dello scrittore bellunese, non si può dunque trattare la questione linguistica in modo sbrigativo, come spesso si è fatto. “Quanto alla lingua di Buzzati – come ha scritto Andrea Zanzotto – esistono problemi tra i più complessi da affrontare per coglierne il movimento”.
Mauro Germani


Psyco: lo spettatore e il suo doppio

25/02/2011

CINEMA E PENSIERO
a cura di
ANGELO CONFORTI





Psycho(1961) di Alfred Hitchcock: lo spettatore e il suo doppio
 

Cinquant’anni fa Alfred Hitchcock (1899-1980), grande maestro del cinema del Novecento, realizzava Psycho, uno dei suoi capolavori, il primo film in cui fu proibito ufficialmente agli spettatori di entrare in sala a spettacolo già iniziato.
Indagando sugli abissi della psiche umana, come in molte altre sue notevoli opere, Hitch in Psycho si è particolarmente divertito a sperimentare una serie di soluzioni tecniche, stilistiche, narrative e strutturali che fanno di questo celeberrimo film un caso quasi unico nella storia della decima Musa.
La vicenda, notissima, è quella di un giovane (Norman Bates, stupendamente interpretato da Anthony Perkins) sofferente di un grave ed irrisolto complesso di Edipo, che lo induce ad uccidere la tirannica madre e a tentare di mantenerla in vita impagliandone il cadavere e, soprattutto, identificandosi con lei e sdoppiando la propria personalità in un devastante conflitto psichico.
E così Hitchcock si diverte ad “uccidere” dopo un terzo di film la star femminile (la celebre Janet Leigh), in una sequenza cult (quella dell’omicidio nella doccia) che dura 75 secondi ma è composta di 90 inquadrature ed ha richiesto circa una settimana di lavorazione, una controfigura, un manichino e una gran quantità di posizioni diverse della macchina da presa.
Eppure ciò che soprattutto ha divertito il grande maestro britannico del brivido è il gioco che conduce abilmente e spregiudicatamente con l’inconscio dello spettatore, con la doppia, o multipla, personalità di chi assiste al film (in cui ad essere indagata non è solo la psiche di Norman Bates, ma soprattutto quella di tutti noi).
Accurati studi sulle dinamiche psichiche inconsce indotte dal cinema (Jean-Louis Baudry, Cinéthique, 1970) hanno messo in luce il parallelismo con la cosiddetta fase dello “specchio”, trattata dallo psicoanalista Jacques Lacan (Ecrits, 1949). Nella sala cinematografica buia, l’immobilità cui è “costretto” lo spettatore, il fatto che il suo campo visivo sia pressoché completamente impegnato dallo schermo, e da quanto accade su di esso, sono condizioni che tendono a riprodurre l’esperienza primaria vissuta dal bambino nell’età tra i sei e i diciotto mesi circa in cui, raggiunto un elevato sviluppo delle capacità visive e con capacità motorie ridotte, impara a riconoscere se stesso come un soggetto autonomo e, vedendo la propria immagine riflessa su superfici speculari, “identifica” se stesso; così, distinguendosi rispetto al resto del mondo, inizia a costruire il proprio Io. L’analogia tra schermo e specchio, nel corso della proiezione cinematografica, induce a sviluppare un processo di identificazione tramite il quale lo spettatore vive “in prima persona” la vicenda del film, con tutte le emozioni che essa suscita, e rafforza in tal modo il proprio Io.
Consapevole di queste dinamiche, il gioco di Hitchcock consiste nell’impedire sistematicamente tale identificazione, contrastando la “costruzione” dell’Io da parte dello spettatore.
Manca, innanzitutto, almeno a prima vista, un vero protagonista, cioè un personaggio con cui immedesimarsi, condizione indispensabile per garantire allo spettatore un riflesso virtuale in cui rispecchiare se stesso per “vivere” la vicenda.
In secondo luogo, tutte le attese dello spettatore sono create per essere poi deluse e rovesciate in modo sorprendente, in un dialogo inconscio tra regista e pubblico che presenta aspetti di grande interesse. Poco prima della sequenza della doccia, lo spettatore è indotto ad aspettarsi un’aggressione sessuale di Norman nei confronti della giovane ospite del suo motel. Invece, con un clamoroso effetto-sorpresa, si trova ad assistere all’omicidio della ragazza da parte della madre di Norman. Il pubblico non sospetta nemmeno lontanamente che si tratta realmente di un’aggressione sessuale sui generis, compiuta dallo schizofrenico Norman, la cui personalità è a tratti dominata da quella della madre che vive in lui. Lo apprenderà soltanto alla fine, non prima di essere stato di nuovo variamente sorpreso nei suoi sistemi di attese.
Hitch, infatti, utilizza con particolare maestria le dinamiche strutturali e narrative della suspense e della sorpresa.
La prima consiste nel fornire al pubblico alcune informazioni sulla vicenda che i personaggi invece ignorano, in modo da mettere in atto un coinvolginento inconscio per la sorte dei medesimi personaggi, a causa degli eventi che si svolgono. La seconda, al contrario, consiste nel tener nascosti agli spettatori alcuni presupposti essenziali della vicenda impedendo loro di prevederne gli sviluppi che, dunque, quando accadono, sconvolgono le convinzioni del pubblico stesso. Il segreto sta nel fornire, con la prima dinamica, false informazioni, creando un’aspettativa (la suspense) fondata su presupposti errati e creando, con la seconda dinamica, uno sconvolgimento ancor più soprendente di quel che ci si poteva aspettare.
Noi, seduti sulla comoda poltrona della sala, desideriamo ottenere certezze, ci aspettiamo la catarsi, la ricomposizione dell’armonia narrativa, la verità definitiva sulla vicenda messa in scena.
Ma l’epistemologia hitchcockiana non prevede una sola verità. È vero che Norman soffre di un attaccamento morboso alla madre tirannica e possessiva, che gli impedisce di raggiungere la maturità affettiva e sessuale e di amare, conquistare e possedere le ragazze in modo, per così dire, normale. È vero che Norman è un assassino che uccide tutte le giovani fanciulle che passano per il suo motel, ma è un assassino per amore, sia pure un amore patologico: uccide con un coltello, simbolo fallico, simbolo per eccellenza della penetrazione e della congiunzione erotica. È vero che Norman è anche la sua stessa madre tirannica e possessiva, che uccide le ragazze che il figlio desidera e vorrebbe amare.
Insomma, la psicologia hitchcockiana non include l’Io come struttura compiuta, unitaria e armonica, quanto piuttosto un aggregato complesso e conflittuale di personalità diverse.
E noi, in mancanza di un riflesso adeguato sulla superficie dello schermo/specchio, ci troviamo pericolosamente esposti sull’abisso delle nostre doppie, o multiple, personalità. Forse in ciascuno di noi c’è un po’ di Norman Bates? 
Angelo Conforti

La trilogia finale di Luis Bunuel

22/01/2011
CINEMA E PENSIERO
a cura di
ANGELO CONFORTI

 

La follia dell’Occidente al tramonto: la trilogia finale di Luis Buñuel

Luis Buñuel (1900-1983) uno dei più grandi maestri del cinema del Novecento, ha lasciato una traccia profondissima nella cultura contemporanea. La sua eredità è ancora viva, anche perché la carica innovativa e trasgressiva del suo cinema è tuttora forte e incisiva. Dopo gli scoppiettanti inizi, all’insegna del Surrealismo e del motto èpater le bourgeois, e una filmografia ricca di capolavori, ha suggellato la sua opera con una splendida “trilogia finale”: Il fascino discreto della borghesia, (Le charme discret de la bourgeosie, 1972), Il fantasma della libertà (Le fantôme de la liberté, 1974), Quell’oscuro oggetto del desiderio (Cet obscur objet du désir,1977).
Nel film del 1972, il cineasta iberico, oltre a far emergere “la naturale pulsione aggressiva dell’uomo, l’ostilità di ciascuno contro tutti e di tutti contro ciascuno [...] figlia e massima rappresentante della pulsione di morte” (Freud), smaschera il processo di civilizzazione esclusivamente formale incarnato dalla borghesia occidentale e dalle istituzioni che storicamente e socialmente la esprimono e la rappresentano: la Chiesa, l’Esercito e la Polizia: dietro la patina della buona educazione emergono le tendenze aggressive e le ansie autodistruttive, l’immoralità e la malafede dei potenti.
La sequenza ricorrente in cui i sei personaggi principali (tra cui spiccano gli interpreti Fernando Rey e Stephane Audran) camminano lungo una strada deserta in aperta campagna, con un’apprensione crescente, ma senza scopi né mète evidenti, esprime il senso profondo dell’opera che mette in scena, con un crescendo esilarante e irresistibile, ma nel contempo inquietante, i lapsus, gli equivoci e gli atti mancati della borghesia occidentale. In un’opera in cui, dietro la maschera alquanto ipocrita del garbo e della discrezione dei rituali della buona educazione, si svelano le pulsioni di morte e si materializzano i fantasmi dello scacco e del fallimento, la sequenza condensa un processo di significazione metaforica che sintetizza, in questa passeggiata nel nulla e verso il nulla, tutta la follia dell’Occidente al tramonto.
Nel secondo film della trilogia il continuo sovvertimento dei codici della narrazione classica e della cultura borghese è attuato mediante un sistematico rovesciamento dei valori e dei significati, un progressivo smascheramento delle credenze, dei pregiudizi, dei miti e dei simboli ipocriti delle istituzioni e dei gruppi sociali. Rispetto al film precedente, il procedimento ironico è spinto fino al rovesciamento completo dei comportamenti e dei valori: il pranzare e cenare che là costituiva paradossalmente un irrealizzabile rito di società e costringeva a saziare la fame in solitudine, qui è un atto sconveniente, da consumare in privato quasi di nascosto, mentre ci si ritrova a tavola seduti su dei water per defecare!!! E durante una carica della polizia che spara, i manifestanti gridano “Viva le catene” (“Abbasso la libertà” nella versione italiana): la libertà, uno dei massimi valori dell’Occidente, di cui tutti parlano, senza che mai se ne comprenda e se ne chiarisca la complessa molteplicità di significati, è forse un pallido fantasma (che, marxianamente, si aggira per l’Europa), un vessillo sventolato spesso da chi la intende come un privilegio, non come un processo di affrancamento dai condizionamenti di ogni genere, soprattutto culturali. E così la metafora finale dello struzzo non significa forse il non voler vedere, quanto piuttosto il non vedere ciò che si ha sotto gli occhi, la convenzionalità e l’assurdità delle convenzioni sociali borghesi.
L’ultimo film, che chiude la vicenda artistica del grande regista spagnolo, si pone come sintesi ideale dei motivi dei due film precedenti. Riprende innanzitutto il tema degli atti mancati, ricondotto, come già agli esordi, ai rituali del possesso sessuale (mentre ne Le charme riguardava prevalentemente quelli dell’alimentazione, metafora anch’essa della pulsione erotica primaria), nella costante tensione tra impotenza e misoginia, tra l’insaziabilità del desiderio e la sua perenne inappagabilità. Da un lato, l’angelica e, insieme, diabolica vergine Concéption/Conchita, amata e indefinitamente bramata dall’anziano e ricco borghese Mathieu Faber (Fernando Rey), gli si nega costantemente, rinviando sempre a “dopodomani”, e ad un sempre rinnovato “dopodomani”, l’amplesso agognato. Mathieu, d’altro canto, si arrende inesorabilmente di fronte alle difficoltà, ai dinieghi, alle promesse pur sempre disattese in una catena di incessanti dilazioni, di fughe di lei ed inseguimenti di lui, da Parigi a Madrid, a Siviglia e ancora Parigi, dove si chiude il cerchio, attraversato da una doppia linea narrativa: l’una, quella dell’ultimo viaggio in treno da Siviglia a Parigi (in cui infine è lei ad inseguire lui), prevalentemente impegnata sul versante del discorso (il racconto di Mathieu ai suoi compagni di scompartimento del treno); l’altra, sul versante della storia, contiene il flashback in cui è rievocata la contrastata storia di un amore folle e impossibile, che sancisce il fallimento dello scambio “borghese” ricchezza-potere/sesso-amore.
Con un’ultima geniale e surreale invenzione, il grande Luis sviluppa il motivo del fallimento borghese alla luce del tema del doppio, proiettato sulla figura femminile di Concéption/Conchita, interpretata da due attrici diverse, che incarnando le due anime della femminilità, ne rappresentano la misteriosa complessità e la sconcertante indecifrabilità, dal punto di vista dell’innamorato che racconta tutta la vicenda in prima persona. L’angelicata Carole Bouquet fa perdere la testa all’anziano borghese, amoreggia con lui ma non gli si concede, si presenta con lunghi mutandoni “di castità” annodati tanto fittamente da mettere a durissima prova la pazienza di Mathieu; poi, quando la storia si ripete, lei s’indigna alla proposta di lui di farlo “felice” in altro modo. La sensuale Angela Molina gli si promette ripetutamente in cambio di concreti vantaggi economici (la casa che lui le acquisterà e intesterà), ma lo umilia costantemente, o facendosi sorprendere a ballare nuda in un locale per turisti giapponesi, o addirittura concedendosi al ragazzo che ha continuato a frequentare e a portarsi in casa (dopo, per farsi perdonare, dirà di aver fatto soltanto finta).
Sullo sfondo della vicenda il terrorismo di matrice cattolica integralista (altro colpo di genio che porta alla luce l’inestricabile nesso tra fanatismo e dogmatismo) e atti di criminalità di vario genere minacciano costantemente la sicurezza e la vita stessa di una borghesia in preda ad un’incontrollabile pulsione autodistruttiva. Il film, e con esso tutta l’opera di Buñuel, non a caso, si chiude su una deflagrazione che incendia l’intero schermo, metafora esplicita del nichilismo occidentale.
Angelo Conforti